Periodico di informazione delle Forze Armate, Forze di Polizia e Pubblico Impiego

Un commento ad un'intervista rilasciata dall'allora Ambasciatore Giulio Maria Terzi, ex Ministro degli Affari Esteri al Brigadiere capo Guglielmo Picciuto Delegato Co.Ce.R. Guardia di Finanza sulla vicenda dei Marò. "Si sono letti giudizi frettolosi e lapidari nei confronti di Latorre e Girone, afferma il delegato, da parte di chi non sa come si siano evoluti gli accadimenti e né conosce le prove a discapito e quelle contro, che accertino una loro eventuale responsabilità o innocenza. Questo non è un esempio di maturità in uno stato di diritto.

Ma al di là della vicenda giudiziaria che seguirà il suo corso, emerge un aspetto politico allarmante: non è accettabile che due militari di uno Stato Repubblicano, nell’esercizio di un adempimento istituzionale che si trovi ad operare all’estero, qualora coinvolto in incidenti di un certa gravità, possa essere giudicato e addirittura detenuto presso uno Stato estero.

E’ il fallimento di una classe dirigente che non è stata capace di affermare il valore della proprio sovranità nazionale e il rispetto delle norme contenute nel diritto internazionale".

 

 Nella storia della Repubblica Italiana si è verificato il più grave e pericoloso precedente per la sicurezza dei nostri connazionali impegnati nei diversi scenari operativi internazionali.

 La colpevole responsabilità politica di un Governo e di un Parlamento che ha consentito la detenzione in un paese straniero dei due fucilieri della Marina Militare Italiana, ha ormai lasciato una traccia indelebile negli operatori della difesa interna ed esterna del nostro Paese, al di là delle implicazioni diplomatiche, giuridiche ed economiche che sono emerse.

In questi lunghi mesi si è assistito ad un iniziale interesse mediatico, culminato in un assordante silenzio, ora sprofondato nell’oblio dell’indifferenza.

La vicenda dei marò sembra essere così finita nel dimenticatoio, nonostante si abbia avuto modo di apprendere l’avvicendarsi di impegni da parte di giudici, ambasciatori, politici e periti, in una delle operazioni internazionali più complesse degli ultimi decenni.

In una crisi diplomatica ancora aperta, si è in attesa di conoscere chi abbia ragione tra l’Italia e l’India. Da un lato, vi è un’Italia dalla debole sovranità e in un periodo di crisi politico-economica senza precedenti, che dovrebbe difendere i suoi militari da una pena gravissima. Dall’altro, un’India assetata di un giustizialismo esemplare per la sua gente, presentato strumentalmente come equità di giudizio a favore dei loro due connazionali deceduti.

In tutto questo tritacarne mediatico-giustizialista ci sono le vite di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, ma anche quelle delle loro famiglie e, non dimentichiamo, il futuro delle vite di tutti quegli italiani che lavorano all’estero.

Occorre ricordare che questi due marò sono stati messi su una nave mercantile, quali Nuclei Militari di Protezione della Marina, in ragione di una norma, la legge n.130/11, che intendeva legittimare la loro presenza in funzione di contrasto alla pirateria. Tale norma destò a suo tempo grande perplessità negli operatori interessati, ma anche nella pubblica opinione che non ha condiviso la scelta politica di utilizzare personale delle forze armate a tutela degli interessi di armatori.

A quel tempo non si aprì nessun dibattito per fare chiarezza in merito alle regole d’ingaggio a difesa della loro incolumità, né tantomeno quali fossero le tutele giuridiche previste.

Si sono letti giudizi frettolosi e lapidari nei confronti di Latorre e Girone, da parte di chi non sa come si siano evoluti gli accadimenti e né conosce le prove a discapito e quelle contro, che accertino una loro eventuale responsabilità o innocenza. Questo non è un esempio di maturità in uno stato di diritto.

Ma al di là della vicenda giudiziaria che seguirà il suo corso, emerge un aspetto politico allarmante: non è accettabile che due militari di uno Stato Repubblicano, nell’esercizio di un adempimento istituzionale che si trovi ad operare all’estero, qualora coinvolto in incidenti di un certa gravità, possa essere giudicato e addirittura detenuto presso uno Stato estero.

E’ il fallimento di una classe dirigente che non è stata capace di affermare il valore della proprio sovranità nazionale e il rispetto delle norme contenute nel diritto internazionale.

Nessun altro Paese democratico lo avrebbe permesso. Ma se la nostra diplomazia, il nostro Governo e la nostra magistratura, nulla hanno potuto per impedire tale evoluzione, occorre fare le dovute riflessioni e aprire un dibattito permanente.

Non dimentichiamo che in giro per il mondo abbiamo un corpo diplomatico, delle forze armate che fanno parte di contingenti di pace in aree a rischio, di operatori della sicurezza impegnati in attività di collaborazione e di intelligence con analoghi organismi stranieri: a tutti costoro che garanzie di tutela riserviamo, a seguito del precedente con l’India?

Per ritornare ai nostri due marò, vorrei solo ricordare a chi soffre di amnesia demagogica e populista, che questi uomini sono due normali lavoratori che hanno indossato nella loro vita una divisa per rappresentare concretamente il proprio Stato.

Quando persegui una mission che per altri è scomoda o non condisa, non ti curi se sei impopolare, sei solo su un muro, su una nave o su un mezzo qualsiasi, in una manifestazione o in un conflitto a fuoco; quando metti in gioco la tua vita a tutela di quella dei più deboli che non conosci; ti aspetti che almeno il tuo Paese possa difendere anche te.

Ricordo a me stesso, il pensiero di Salvatore Girone che nonostante sia ora in Italia per curarsi, ha rivolto la sua attenzione al collega Latorre, perché “nessuno indietro” del suo team.

La retorica di facciata di cui vengono intrisi alcuni discorsi di circostanza, non lasciano trasparire la nostra quotidianità. La stessa in cui il collega è il tuo compagno di vita, quello a cui ti aggrappi per la reciproca protezione, quello a cui confidi i tuoi disagi e le tue difficoltà, perché intorno a te spesso sei solo e gli “altri” non voglio comprendere e rispettare il tuo lavoro, nonostante tu sia pronto a difenderli in ogni caso.

Ma quando il tuo Paese ti fa venir meno le garanzie per le quali altri come te hanno dato la vita affinché fossero riconosciute ad ogni cittadino, ti resta una profonda amarezza.

In questa vicenda surreale, permanendo molti interrogativi da un’estenuante trattativa ancora in stallo, incontrando cordialmente l’Ambasciatore Giulio Maria Terzi di Sant’Agata[1], allora Ministro degli Affari Esteri, gli ho posto alcune domande per comprendere meglio, qualora ce ne fosse ancora bisogna, cosa sia accaduto in quel maledetto incidente.

Va ricordato che l’Ambasciatore Giulio Terzi fu uno dei principali attori nella controversia diplomatica con l’India, giungendo ad adottare, con apprezzabile coerenza, l’estrema decisione di rassegnare le proprie dimissioni dall’incarico politico, per non aver condiviso la posizione del Governo italiano.

Le civiltà muoiono per l’indifferenza verso i valori peculiari che la fondano, (Nicolás Gómez Dávila)

 Guglielmo Picciuto

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Ambasciatore, lei sa che la vicenda occorsa ai due marò continua a farci riflettere sull’atteggiamento tenuto dalla politica italiana, a seguito di un incidente internazionale, nel quale sono stati travalicati i principi giuridici del diritto internazionale e la sovranità nazionale, da parte di uno stato estero nel quale è tuttora vigente la pena di morte. Avendo apprezzato il suo diretto impegno istituzionale per la risoluzione di quel contesto, può fornirci una sintetica rappresentazione dei fatti?

Penso sia utile soffermarsi su tre aspetti essenziali.

La gravità del fatto che è accaduto, ha riverberato i suoi effetti sulla politica estera italiana, sul ruolo del Paese e sulla visione che la comunità internazionale ha dell’Italia.

Il secondo punto riguarda il quadro giuridico internazionale e il diritto internazionale applicabile.

Il terzo aspetto riguarda il futuro: che cosa chiediamo ai nostri uomini con le stellette? Su quali garanzie e su quali presupposti di affidabilità delle istituzioni politiche nei confronti delle Forze Armate, il Paese può continuare a chiedere loro?

Sull’incidente occorso a metà febbraio del 2012, oramai quasi tre anni fa, si è aperta una controversia rilevante con l’India. Controversia vuol dire: l’esistenza di posizioni formalmente diverse, pubblicamente spiegate, confermate non soltanto da dichiarazioni di governo, ma anche da un’infinità di atti parlamentari, per non dire poi anche di campagne di opinione, su chi doveva giudicare un incidente che, sappiamo tutti, non ha a tutt’oggi fatto emergere alcuna responsabilità nei confronti di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Perchè ci sono una serie di motivi chiarissimi, che portano ad escludere una qualsiasi loro responsabilità, anche semplicemente di natura colposa; ulteriori addebiti non potrebbero esserci e non sarebbero sicuramente immaginabili. Ma escluderei anche responsabilità di natura colposa, perchè le ore in cui l’incidente che ha coinvolto la Lexie (la petroliera Enrica Lexie n.d.r.) non corrispondono all’incidente che ha coinvolto il St. Antony (il peschereccio colpito n.d.r.), perchè la perizia balistica dice che i proiettili sparati non erano compatibili con quelli delle armi a bordo in dotazione dei due militari, perchè le testimonianze del comandante del St. Antony riconoscevano questa discrasia oraria della quale ho accennato, perchè infine, da tutte le evidenze emerge che si è trattato chiaramente di una ricostruzione ex-post fatta dalla guardia costiera e dalle autorità indiane. Tutto ciò per dare qualcosa in pasto all’opinione pubblica, per far vedere che c’erano due stranieri sanguinari che erano andati ad uccidere dei pescatori indiani (Salestian Jelastine e Ajesh Pinku n.d.r.), per definirli, come direbbero gli americani: trigger happy. Il modo per risolvere una controversia internazionale è previsto nei dettagli dall’ordinamento internazionale e, in questo caso, dalla Convenzione sul diritto del mare (UNCLOS – United Nations Convention on the Law Of the Sea – n.d.r.). Nello specifico, trattasi degli articoli 50 e 54, in base ai quali si riconosce la giurisdizione allo stato nazione e quindi all’Italia, essendo il fatto accaduto su una nave di bandiera italiana. L’India non ha voluto accettare alcuna soluzione di arbitrato consensuale. In un arbitrato internazionale le parti designano dei loro rappresentanti nel collegio, ma l’India si è astenuta dal dare riscontro alle richieste italiane. La Convenzione invece, prevede che ci sia un arbitrato obbligatorio: il giudice della parte che non accetta, viene nominato dal Tribunale del diritto del mare. Questa è l’unica strada che il governo italiano poteva prendere, così come in effetti ha fatto, tra la fine del mese di febbraio e l’inizio del mese di marzo. Non è che ci volessero dei Pico della Mirandola o ministri di capacità sovrumane dal punto di vista delle cognizioni, nè di elaborazioni intellettuali, nè di capacità politiche. Bastava leggersi la Convenzione e ci si arrivava tranquillamente. D’altra parte questa strada era stata non soltanto consigliata, ma era stata definita e messa a punto da un team dei migliori giuristi in Italia, con la consulenza di esperti stranieri. Improvvisamente, questa strada si è interrotta su un precipizio nel quale sono stati “buttati”, il 22 marzo, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Perchè sono stati “buttati” nel precipizio? Perchè improvvisamente è nata la preoccupazione di qualche grosso affare che avrebbe potuto avere dei problemi con l’India. Abbiamo letto tutti poi, una miriade di informazioni sulla stampa e anche il collegamento che i principali giornali italiani hanno fatto, tra la vicenda Marò e grosse commesse “molto opache”, , che erano in corso. Addirittura c’è chi sostiene che in realtà, chi ha spinto dalle retrovie per far saltare nel precipizio i nostri due sottufficiali, e non mi riferisco necessariamente ai rappresentanti di governo, non fosse del tutto inconsapevole di una circolazione di fondi non dichiarati fra le due sponde del mare. Questo il fatto, la controversia e l’impostazione del diritto applicabile. La gravità di questa vicenda, dalla sua origine e sino a tutto ciò che è avvenuto dopo, cioè dall’incidente del 15 febbraio in cui sono morti i due poveri pescatori, fino a quello che è avvenuto tra il 21- 22 marzo 2013, va ben al di là della gestione di una crisi specifica. Perchè dimostra come il nostro Paese non sia assolutamente in grado di gestire quella che doveva essere una piccolissima controversia. Non piccolissima nel senso letterale, per sminuirne gli effetti dei soggetti coinvolti: perchè parliamo di due uomini, delle loro famiglie, dei loro figli e quindi dal punto di vista umano è comunque un grandissimo problema e doveva essere affrontato con la mente e con il cuore. Ma in un contesto mondiale di crisi che si aprono dappertutto, poteva essere una controversia di proporzioni estremamente specifiche, delimitate e negoziabile con una certa semplicità, anche con un impiego minimo di risorse, di esperti e di consulenti. Invece, questa controversia è diventata la prova lampante di un’incapacità dell’Italia a gestire una crisi, nella quale sia in discussione un aspetto della propria sovranità nazionale. In questo caso si tratta di due militari italiani, ma avrebbero potuto prenderci un pezzo di territorio nazionale o un’isola italiana, legittimando qualsiasi Paese a mettere in discussione altri elementi della nostra sovranità, come poi gli stessi indiani hanno fatto nei confronti del nostro ambasciatore. Quindi, l’escalation di gravità di questa controversia ha influito, e sta influendo pesantemente, sulla nostra politica estera, perchè innanzitutto dà la sensazione che in Italia non c’è nessuna considerazione del valore della sovranità nazionale. Purtroppo siamo in un Paese che questa sensazione l’ha già data storicamente in alcune altre vicende. Abbiamo avuto negli anni 70 la firma del trattato di Oslo, poi c’è stato un periodo in cui davamo spazio libero a formazioni terroristiche palestinesi sul territorio italiano, passando al modo in cui è stato affrontato l’incidente di Ustica o all’assoluta indifferenza per il fatto che un terrorista italiano (Cesare Battisti n.d.r.)[2] continui a vivere nella sua latitanza all’estero. Non uso mai il termine “ex”, perchè credo che per gli assassini, una volta che uno è terrorista, lo rimane. Quando uno ha ammazzato un uomo, lo si può anche perdonare, lo si può amnistiare, può scontare la sua pena, ma quello che ha commesso purtroppo resta, foss’altro che nella carne, nella mente e nel cuore delle famiglie delle vittime. Mi riferisco a due o tre giorni fa, quando ho incontrato a Milano Alberto Torregiani[3] su una sedia a rotelle. Ogni volta che lo incontro, egli mi chiede che cosa stia facendo l’Italia per dargli giustizia. Anche questo è un elemento di sovranità nazionale. Non è una questione semplicemente riferibile all’estradizione di un rapinatore, ma si tratta di un criminale che ha ucciso appartenendo, anzi, dichiarandosi ancora fiero di esser appartenuto, al terrorismo armato, che viene lasciato oramai libero nella sua latitanza, con un governo italiano che viene meno ai suoi doveri costituzionali di portare a termine un’azione di giustizia.

Siamo in un Paese che sul piano dell’affermazione della propria sovranità non è che abbia un grande smalto. Ma questo resta evidentemente, e continua ad esserlo, un fattore più lancinante nelle coscienze degli italiani che amano la Patria e vogliono riaffermare la sovranità per loro, per i loro figli e per le generazioni italiane. Tale aspetto dovrebbe trovare maggior risalto da parte della grande stampa e dell’informazione, che invece ritiene scomodo parlarne. Così come la grande stampa è infastidita da alcune cose che toccano le forze dell’ordine.

Ma il terzo punto riguarda il futuro. L’estrema debolezza di cui stiamo dando prova, influisce pesantemente sulla tutela dei nostri connazionali, e vorrei dire dei nostri connazionali con le stellette che sono impegnati in operazioni di pace. Influisce negativamente sulla tutela italiana di chiunque si trovi in giro per il mondo: aziende o cittadini italiani che operano in vari campi; perché la gente si chiede, legittimamente, con che vigore, con quale tipo di priorità sarà protetta dal governo italiano nel caso qualcosa di sgradevole capiti loro. Nel caso specifico, nei confronti dei nostri militari impiegati in operazione di pace, si è creato un precedente negativo. In questo governo, abbiamo più di un rappresentante politico che nel momento del rinvio di Latorre e Girone in India, ha dichiarato alla televisione, e ne conservo i videoclips, che dovevano essere processati dall’India il più presto possibile. Queste sono persone che hanno responsabilità di governo. Il riconoscimento assurdo, ignorante, di una giurisdizione che l’India non ha e che doveva essere sempre contestata a qualsiasi livello, da tutto il Paese e dal sistema Italia nel suo complesso, crea un grande vulnus per la difesa delle tutele dei nostri militari. È come se l’assicurazione sulla vita o sulla responsabilità civile fossero state cancellate. Perché nel diritto internazionale il precedente pesa come un macigno. Gli stessi indiani hanno utilizzato il discorso del precedente nei nostri confronti, facendo addirittura ricorso al caso della nave francese S.S. Lotus, che negli anni 20 ha avuto un incidente con una nave turca (avvenuto nel 1927 n.d.r.), ben 60 anni prima della Convenzione sul diritto del mare, sostenendo che potesse giustificare la giurisdizione indiana. Questo aspetto dimostra che addirittura gli indiani, pensano di avvalersi del precedente a danno dell’Italia, sovraordinandolo ad una Convenzione ratificata 60 anni dopo. Per tale motivo noi non dovremmo guardare a cuor leggero alla gravità di questo precedente, nella prospettiva di sempre possibili accadimenti, per i nostri uomini impegnati quale forza di pace. Adesso, abbiamo seimila uomini senza polizza di assicurazione in giro per il mondo. Allora, oltre agli aspetti di natura strettamente giuridica, io trovo che si debbano considerare degli aspetti più profondi, di natura eminentemente politica. Non si può continuare ad ostentare distrazione, cultura del silenzio, disinformazione e provocare indifferenza nell’opinione pubblica, così come sta facendo ora il governo Renzi e prima il governo Letta: queste sono cose che non devono più interessare, fidatevi di quello che stiamo facendo e ve lo risolviamo. Il risolverlo, il riportare a casa Latorre e Girone ha la priorità massima, ma non risolve comunque la gravità che si è creata nel trattare questa controversia, questo precedente. La conclusione che si trae, e vi posso assicurare di averne avuto prova dai tantissimi contatti anche con ex colleghi diplomatici stranieri, è che l’Italia poi, in fin dei conti, abbia una considerazione bassa delle proprie Forze Armate. Sono sicuro che se la stessa cosa fosse accaduta a qualche personalità politica dell’arco di maggioranza, il caso sarebbe stato trattato con ben diversa incisività, continuità e passione. In altre parole, c’è un aspetto politico che riguarda il nostro rapporto con il resto del mondo: è la considerazione che il Paese dà e l’immagine che vuole dare, nella relazione fra potere politico e Forze Armante del Paese. Non è tollerabile che continui quest’immagine di scarsa considerazione e questo deve essere rovesciato. Il ruolo delle nostre forze armate è stato riconosciuto e continua ad essere riconosciuto con espressioni di elogio. Svolgendo diversi compiti nella mia carriera, mi è capitato di incontrare molte volte e in diversi contesti, il Segretario Generale delle Nazioni Unite, nelle cui conversazioni non sono mai mancati apprezzamenti molto forti per i comandi italiani impegnati in operazioni di pace e per i nostri reparti speciali. Siamo stati punto chiave per la stabilizzazione di tante crisi, con sacrifici eroici dei nostri uomini. La considerazione che le forze armate devono pretendere, a mio avviso, dall’intero Paese e dall’opinione pubblica, ma soprattutto dalla classe politica, dal governo e dal Parlamento, è una considerazione ben diversa: ci dev’essere un impegno a trattare i temi della difesa a livello internazionale in modo prioritario.

Una questione come quella dei marò avrebbe dovuto essere messa, su richiesta italiana, al primo punto di tutte le decine di riunioni internazionali, di convocazioni del consiglio europeo, dei consigli degli affari generali dei ministri degli esteri, di tutte le riunioni dei vertici del consiglio atlantico e dei loro ambasciatori, delle riunioni del G20 e, soprattutto, avremmo dovuto chiedere una convocazione ad hoc del Consiglio di Sicurezza, essendo l’organo supremo abilitato a discutere dei temi della sicurezza internazionale e, in particolare, delle operazioni antipirateria. L’aver mancato su una cosa così evidente e così automatica, è un’ammissione formale di disinteresse e di scarsa rilevanza che noi abbiamo dello strumento militare per il Paese sulla scena internazionale. A meno che, non si voglia dire che tutto sommato, noi mandiamo dei nostri uomini in giro per il mondo, ma non crediamo un gran ché all’utilità di quello che fanno o perché vogliamo far piacere magari a questo o a quel Paese, ma non siamo convinti e non la riteniamo una priorità politica.

Dopo il rientro in Italia e la successiva “riconsegna” nella mani dell’India dei colleghi Latorre e Girone, nell’opinione pubblica sorsero molte perplessità. Assistemmo impotenti allo sconcertante evolversi di un caso unico nella diplomazia internazionale: permettere che due militari venissero detenuti presso uno stato estero per essere giudicati in quel territorio. Può illustrarci le valutazioni politiche e diplomatiche che vennero adottate nel corso della vicenda?

Dal momento in cui Latorre e Girone sono stati catturati con l’inganno in acque internazionali, la mia priorità massima e anche quella del collega della difesa (Giampaolo Di Paola n.d.r.), sino a quello scellerato 21.03.2013, è stata quella di riportarli in Italia e di trattenerli. Era chiarissimo alle autorità indiane che noi volevamo riaverli in Italia per sottoporli a un giudizio nel nostro Paese, chiedendo tutte le prove a loro carico di cui disponessero. Le prove le avevamo richieste ufficialmente e ripetutamente con la rogatoria internazionale, alla quale gli indiani non hanno mai risposto.

Quando noi abbiamo firmato i due affidavit, entrambi contenevano una clausola, discussa e concordata con le autorità indiane: il governo italiano si impegnava a rimandarli in India puramente nell’ambito delle proprie competenze istituzionali. Vale a dire che, essendoci due procedimenti aperti, era estremamente probabile che la magistratura militare o quella ordinaria li avrebbe trattenuti per sottoporli a giudizio, sia in occasione del rientro natalizio di dicembre e sia in quello elettorale di febbraio. Questo gli indiani lo sapevano. Ma siccome nella ripartizione dei poteri costituzionali il governo è distinto dalla magistratura, l’unica cosa che si sarebbe potuta fare da parte del governo, sin da dicembre, era un’azione di sensibilizzazione, nel caso in cui l’avvicinarsi delle vacanze natalizie avesse creato magari alla procura della repubblica altri impegni o altre priorità.

In una lettera di fine dicembre, ho scritto al Presidente del Consiglio e agli altri colleghi di governo coinvolti nella questione, di sensibilizzare la magistratura affinché procedesse ad avviare il processo, da un lato per manifestare e rafforzare la giurisdizione in Italia e, dall’altro, per trattenerli sino alla sentenza definitiva.

Dopodichè, se i militari fossero stati giudicati innocenti o se il fatto fosse stato dichiarato non avvenuto, il problema sarebbe stato risolto e quindi gli indiani non avrebbero potuto certamente processarli una seconda volta per lo stesso reato.

Questa è la ricostruzione alla luce del sole e non c’è nessun trucco. Mi vien veramente da sorridere nell’apprendere che un mio ex collega di governo, ora asserisca che fosse completamente all’oscuro di quest’azione svolta dal governo per trattenere i marò, e che avremmo voluto violare un affidavit ingannando gli indiani.

A parte che l’intero governo aveva sempre lavorato collegialmente su tutta questa materia, sin dal marzo 2012. Infatti, tre settimane dopo la cattura dei marò, il Comitato Interministeriale per la Sicurezza della Repubblica, sedeva in sessione permanente a palazzo Chigi per trattare la crisi marò e tutte le altre questioni importanti che avessero potuto riguardare i cittadini italiani all’estero. Il C.I.S.R. si era riunito su iniziativa del Presidente del Consiglio, con la partecipazione dei ministri Terzi, Di Paola, Severino, Cancellieri, Passera, Grilli e del sottosegretario, con delega ai servizi di sicurezza, De Gennaro. Si possono trovare i comunicati sul sito di Palazzo Chigi, di cui ne ho conservato memoria. Quindi, cosa è successo nella memoria di un mio ex collega di governo, che sostiene di non aver saputo più nulla della questione dei marò, quando l’11 marzo e poi il 18 marzo 2013, il governo comunicò che i marò sarebbero rimasti per tutta una serie di motivazioni che avevano fatto ritenere superato l’affidavit stipulato con l’India, al di là delle considerazioni circa l’intervento della magistratura?

In un momento di crisi economica di carattere internazionale, ma soprattutto con l’acuirsi di un allarmante scontro sociale nel Paese, l’attenzione alla vicenda dei marò ha quantomeno favorito la riscoperta di un sano sentimento di appartenenza al proprio Paese, che è stato trascurato da tempo.

Un’escalation terroristica internazionale proveniente da quelle aeree che da sempre soffrono un’instabilità politica, nonché la necessità di fronteggiare organizzazioni criminali che aggrediscono l’economia nazionale e internazionale, necessitano di una sempre maggiore attenzione preventiva, da parte della politica internazionale.

In ragione della sua lunga ed approfondita esperienza diplomatica, qual è la sua visione di sicurezza interna ed esterna, su quegli scenari internazionali che richiedono l’impiego delle nostre forse di pace e sicurezza, garantendogli le necessarie tutele giuridiche?

Io non vedo nessuna discontinuità tra la sicurezza interna e quella esterna del Paese. È esattamente la stessa cosa. Lo è forse stato dai tempi della prima guerra mondiale, ma lo è in modo straordinariamente evidente da vent’anni a questa parte.

La sicurezza nel Paese la si garantisce nelle operazioni di ordine pubblico, di lotta alla criminalità organizzata, di lotta alla criminalità finanziaria; nella gestione delle regole d’ingaggio nei confronti delle manifestazioni di opinione e di quelle riguardanti il lavoro.

Mi ha colpito il fatto che ci siano state delle immagini molto tristi il giorno della manifestazione della Fiom e sono state, secondo me, delle immagini altrettanto tristi, quando una piccola manifestazione a favore di Latorre e Girone è sfilata davanti al Campidoglio, sotto la pioggia e in modo assolutamente pacifico, con uno schieramento inspiegabile di reparti antisommossa.

Proprio perchè ritengo vi sia una stretta correlazione tra le due tipologie di sicurezza, il ragionamento che abbiamo appena fatto sulle forze di pace e sul grave impatto che ha la pessima gestione di una crisi, come quella che si è creata sulla questione dei marò, danneggia seriamente la motivazione degli operatori o degli addetti militari.

Non solo. Attraverso quella politica di spegnimento di attenzione che si vuol fare sul caso dei marò, si sminuisce e si tiene anche molto sottotono l’afflato che invece l’opinione pubblica vuole manifestare nel seguire la gestione di questa vicenda.

Il fatto che il governo da un anno mezzo dica “lasciate lavorare il manovratore”, non parlatene, statene tranquilli che li facciamo tornare, è un oltraggio all’intelligenza.

È un modo per svilire la cultura della sicurezza, per dire che non è importante che il cittadino comune si occupi di una questione di sicurezza internazionale, perché tanto se ne occupa il governo. Ma che vuol dire? Io voglio sapere, come cittadino italiano, se un soldato viene protetto, qual è la priorità politica che si dà alla sua protezione, quali sono i mezzi messi in campo, quali sono gli strumenti giuridici, quale tipo di preparazione si è in possesso e come si fa prevenzione quando si creano queste situazioni.

L’assenza di tali risposte impatta negativamente su tutta l’impianto della sicurezza interna ed esterna.

Se poi uno guarda dal punto di vista del diritto costituzionale, dei valori fondamentali della Carta su cui poggia il Paese, il fatto di non aver mai spiegato a che titolo il governo li ha rimandati in India, ci lascia perplessi. Addirittura, il governo italiano ha firmato un altro affidavit per rimandare Girone in India appena sarà guarito, in un Paese dove vige, sia pure teoricamente, la pena capitale. La giurisprudenza costituzionale e della cassazione vieta tassativamente l’estradizione di fatto o formale verso un Paese dove la pena di morte sia in vigore, poiché nell’ordinamento italiano è stata cancellata.

Anche qui, ancora peggio, trattandosi di due membri delle forze armate, l’aver violato il dettato costituzionale nei confronti di due cittadini militari italiani, rappresenta una duplice violazione. È una completa indifferenza per quello che è il dettato costituzionale, esplicito ed implicito nei suoi valori, rimandando e addirittura impegnandoci a rimandare uno di essi per la quarta volta. Per di più, ancora più grave, il fatto che il 22 marzo, quando l’allora inviato speciale del Presidente del Consiglio Monti, nominato in quattro e quattr’otto sottosegretario De Mistura (Staffan De Mistura n.d.r.), all’epoca vice ministro, dichiarandosi soddisfatto dell’impegno indiano nell’aver ricevuto assicurazione sulla non applicabilità della pena di morte nel caso di Latorre e Girone, venne poi smentito ripetutamente, una volta che i due marò erano tornati in India. Infatti, ancora adesso, all’interno del governo indiano qualcuno chiede che venga applicata la Sua Act (legge antiterrorismo indiana n.d.r.). Io mi chiedo: tutto questo è sempre gratis? Chi compie queste cose assurde, può continuare a girare per il mondo occupandosi di una cosa o dell’altra ed avere sempre incarichi più elevati? Non paga mai nessuno? Non c’è mai una responsabilità, per lo meno politica, da parte di chi ha commesso errori così gravi?

Guglielmo Picciuto

*Delegato Co.Ce.R. G. di F.

 

[1]Nato a Bergamo il 9 giugno 1946, è stato un ambasciatore e politico italiano, nonché ex Ministro degli Affari Esteri del governo Monti dal 16.11.2011 al 26.03.2013. – https://twitter.com/giulioterzi (@GiulioTerzi)

 

[2]Nato a Cisterna di Latina il 18 dicembre 1954, è un ex terrorista. È stato condannato in contumacia all’ergastolo, con sentenze passate in giudicato, per aver commesso quattro omicidi, in concorso, durante gli anni di piombo, ritenuto ex leader dei PAC – Proletari armati per il comunismo. Trascorse la prima fase della sua latitanza in Francia. Arrestato in Brasile nel 2007, Battisti fu detenuto in carcere a Brasilia fino al 9 giugno 2011. Il 31 dicembre 2010 il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva annunciò il rifiuto dell’estradizione in Italia. Della questione fu investita la Corte costituzionale brasiliana, che l’8 giugno 2011 negò definitivamente l’estradizione. Battisti dopo la sentenza fu scarcerato ed è attualmente in libertà.

 

[3]Figlio adottivo di Pierluigi Torregiani, il 16 febbraio 1979 si trova a Milano nella gioielleria del padre, ove avvene un tentativo di rapina. Il padre reagì e nel conflitto a fuoco che si generò, morì lo stesso Torregiani, mentre il figlio Alberto venne ferito gravemente e rimase paralizzato dopo essere stato colpito alla schiena da una pallottola vagante. L’uccisione fu compiuta dai PAC – Proletari Armati per il Comunismo. Del gruppo terroristico venne arrestato Cesare Battisti, ora latitante, individuato come mandante dell’omicidio di Torregiani.

 

 

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