Periodico di informazione delle Forze Armate, Forze di Polizia e Pubblico Impiego

Due volte si vede respingere i benefici previdenziali per gli esposti ad amianto, ma la Corte di Cassazione infine accoglie le ragioni di un lavoratore affermando il principio secondo il quale non c’è obbligo, data la lunga esposizione lavorativa, di “dettagliare la quantità di fibre per centimetro cubo presenti nel luogo di lavoro”. Dopo otto anni di battaglie legali contro l’Inps, la Corte di Cassazione riconosce, dunque,  il diritto alla maggiorazione dell’anzianità contributiva, prevista  dall’articolo 13, comma 8 della legge 257/1992, ad un dipendente delle Ferrovie Sud-Est  srl che, per 12 anni, si  è occupato della manutenzione dell’apparato frenante anteriore e posteriore degli autobus e della sostituzione dei ferodi , contenenti amianto in quantità considerevoli, lavorando peraltro in ambienti dove erano presenti materiali dismessi, da cui emanavano polveri cancerogene, che prolungavano l’esposizione per l’intero arco lavorativo di otto ore.  

Motivo della decisione dell’Alta Corte è dedotto dalla sentenza deposita in cancelleria il 14 marzo scorso (n. 06543/17) nella quale elenca principi e norme in base a cui riconoscere il beneficio previdenziale. Il verdetto capovolge i due precedenti pronunciamenti del tribunale e della Corte d’appello di Lecce che avevano respinto, invece, la richiesta di riconoscimento del diritto previdenziale.

Per la Cassazione, i ricorsi del dipendente sono fondati, in quanto, è stato un “errore” dei giudici di merito il ritenere che “il lavoratore avesse l’onere di allegare e provare in maniera dettagliata la quantità di fibre per centimetro cubo presenti nell’ambiente di lavoro”. Così come è stato un errore “non ammettere le prove testimoniali sostenendo contrariamente al vero che non fossero state dedotte le circostanze sull’esposizione subita dal lavoratore, laddove invece, per come risulta dal ricorso, il lavoratore aveva descritto dettagliatamente le mansioni e le circostanze relative all’esposizione diretta ed indiretta da egli subita nel corso dell’attività lavorativa”.

Per questa ragione, sotto il profilo “probatorio non è necessario che il lavoratore fornisca la prova atta a quantificare con esattezza la frequenza e la durata dell’esposizione, potendo ritenersi sufficiente (…) che si accerti, anche a mezzo di consulenza tecnica, la rilevante probabilità di esposizione del lavoratore al rischio morbigeno, attraverso un giudizio di pericolosità dell’ambiente di lavoro, con un margine di approssimazione di ampiezza tale da indicare la presenza un rilevante grado di probabilità di superamento della soglia indicata dalla legge”.  

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