Periodico di informazione delle Forze Armate, Forze di Polizia e Pubblico Impiego

La guerra e le armi sono sempre un ottimo business. Così Archivio Disarmo apre il comunicato stampa del 17 marzo scorso con cui dà notizia del rilascio dell'ultimo rapporto di SIPRI, Stockholm International Peace Research Institute, http://www.sipri.org/ sintetizzato nell'ultimo quinquennio 2010-2014, rispetto al precedente, dall'incremento del 16% del transfert internazionale dei sistemi d'arma.
"Italiani" segue con attenzione gli avvenimenti a livello internazionale ed in particolare quelli in Africa, legati più o meno direttamente, ai rischi derivanti dal possibile allargamento dei conflitti in atto.
Il Prof. Maurizio Simoncelli, Vice Presidente di Archivio Disarmo,http://www.archiviodisarmo.it/index.php/it/, risponde alcune domande per aiutarci a comprendere in che misura l'osservazione e lo studio di alcuni fenomeni possa contribuire a comprenderne la reale portata...."Un al recentissimo rapporto dell'ONU sulla scarsità mondiale dell'acqua, che ci dice che circa 750 milioni di persone non hanno oggi accesso all'acqua potabile e fra 15 anni vi sarà un ulteriore calo del 40% di disponibilità di questa risorsa fondamentale. Quanti miliardi di persone vi saranno allora coinvolti? A queste sfide dobbiamo rispondere e non servirà a nulla arroccarci nelle nostre fortezze, se non a perdere tempo prezioso. Ipotesi neocoloniali di interventi militari tesi a riportare la pace in Libia non solo mostrano d'ignorarne la realtà storica, ma anche quella attuale e le pregresse esperienze negative in Iraq e in Afghanistan​"

L'intervista
Professore, la crescita della vendita delle armi sembra al tempo stesso causa ed effetto della crescita del numero dei conflitti. E' così?

La produzione e il commercio delle armi sono certamente una concausa non secondaria dei tanti conflitti che affliggono il nostro pianeta, seppur non l'unica. Sicuramente non si possono fare guerre se non si ha ampia disponibiltà di armi e di munizioni. Non va dimenticato che, nel corso di un quindicennio, la spesa militare mondiale è passata dai 1.052 miliardi dollari del 1998 ai 1.702 del 2013. Tali incrementi di budget hanno comportato un incremento del commercio internazionale, che è passato dai 19 miliardi del 2000 ai 26 del 2013. Gli ultimi dati disponibili ci mostrano un ulteriore incremento del 16% del commercio mondiale di maggiori sistemi d'arma (carri armati, aerei, navi, ecc.) nel quinquennio 2010-2014 rispetto a quello precedente 205-2009. Basti pensare al continente africano, afflitto da tante guerre e sul cui territorio si calcola una presenza di circa 100 milioni di armi piccole e leggere (pistole, fucili, mitra, mitragliatrici, bazooka, lanciamissili portatili ecc.), che sono state giustamente definite le vere armi di distruzione di massa, utilizzate come sono nei numerosi atti di violenza armata nel cosiddetto continente nero. Nei soli primi due mesi del 2015 sono stati calcolati ben 2.347 episodi di violenza armata in tutta l'Africa. I primi dieci esportatori mondiali nel quinquennio 2010-2014 sono, nell'ordine, USA, Russia, Cina, Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna, Italia, Ucraina e Israele. L'Africa, nello stesso periodo, ha aumentato le importazioni di armi del 45%, mentre il Medio Oriente del 25%. La disponibilità di questi vasti arsenali non sembra assolutamente aver contribuito ad aumentare la sicurezza, anzi ha reso possibili ampi rifornimenti anche alle varie formazioni terroristiche, da Boko Haram alle forze del Califfato islamico. Non preoccupano più solo le diverse guerre (per lo più dimenticate dai mass media e dall'opinione pubblica), ma anche il diffondersi planetario degli atti di terrorismo, da Parigi a Tunisi, da Kabul a Peshawar, per ricordare solo quelli più noti.

Lo stato della trattativa in corso sul nucleare iraniano sembra al momento l'unico dato positivo sullo scenario internazionale, malgrado l'esito delle elezioni in Israele. C'è ancora spazio per un esito favorevole del negoziato?
L'Iran, insieme a tanti altri paesi (tra cui l'Italia), ha firmato il TNP Trattato di Non Proliferazione atomica, impegnandosi a non dotarsi di tali armi, ma intende - secondo quanto consente il TNP - di accedere all'energia nucleare a scopi civili. E' vero che il passaggio dall'energia nucleare a scopi civili a quella a scopi militari è relativamente breve, ma mi risulta che ben quattro paesi (India, Pakistan, Israele e Corea del Nord) si siano dotati di tali armi senza che la comunità internazionale minacciasse interventi militari. Il nuovo governo iraniano appare meno minaccioso di quello precedente, più interessato a riaprire un dialogo commerciale e politico con l'Occidente e pertanto vi sono buone possibilità d'intesa, anche in relazione alle esigenze di un accordo il più vasto possibile contro il terrorismo di matrice islamica. D'altronde, non siamo certo noi occidentali che possiamo ergerci a severi custodi del TNP, visto che diversi paesi firmatari (Italia, Belgio, Olanda, Germania e Turchia) ospitano sul proprio territorio e in contrasto con il TNP le bombe nucleari statunitensi B-61, per di più in fase di potenziamento per divenire B-61/12. Né va dimenticato l'accordo statunitense del 2008 con l'India in materia nucleare, intesa non permessa dal TNP che vieta collaborazioni tra paesi armati nuclearmente (USA) e paesi non firmatari del TNP (India). Il principio di due pesi e due misure, con paesi di serie A e paesi di serie B, non è più pagante in un quadro geopolitico multipolare in continua trasformazione come quello attuale. Comunque non va dimenticato che l'intera America Latina, l'Africa, l'Asia centrale e quella sud-orientale, la Mongolia, il Pacifico del sud da tempo si sono dichiarate unilateralmente territori liberi da armi nucleari, Nuclear Weapons Free Zone NWFZ, con appositi trattati internazionali. Siamo relativamente pochi a puntare ancora sulla strategia nucleare militare: cosa diremo alla prossima Conferenza di Revisione del TNP a giugno agli altri paesi che attendono un vero disarmo come da impegni sottoscritti con il trattato medesimo?

Le polemiche generate dalle alterne vicende degli F35 sul versante italiano sembra stiano segnando un punto a favore dei falchi. Non le chiediamo un pronostico su chi vincerà, ma un suo giudizio su come è stata gestita l'intera vicenda, che risale, ormai, a diversi anni fa.
La genesi del progetto F35 risale a molti anni fa. Governi di centrodestra e di centrosinistra lo hanno sostenuto negli anni, indipendentemente dai costi, dai ritardi e dai difetti certificati dal governo statunitense stesso. Solamente in seguito alle pressioni della società civile il problema è venuta alla ribalta, in concomitanza con la crisi economica che ha duramente colpito anche il nostro paese. La tradizionale separatezza della politica della difesa è stata infranta e il dibattito pubblico ha condotto il governo Monti a ridurre di un terzo circa gli ordinativi, portandoli a 90 aerei. La recente mozione della Commissione Difesa della Camera dei Deputati che chiedeva un'ulteriore riduzione a 45 è stata totalmente disattesa dall'attuale governo. Rimane, per ora, la spesa di circa 13 miliardi per il solo acquisto di questi aerei, cifra ipotizzata poiché non si sa ancora con precisione il costo, mentre si ipotizza un'altra trentina di miliardi per il costo di gestione relativo all'intera vita operativa degli apparecchi. Quel che colpisce di più è che tale programma è un evidente siluro verso l'industria della difesa europea, nell'ambito della quale viene prodotto un aereo di analoghe prestazioni (ad eccezione dell'invisibilità ai radar, che peraltro fra pochi anni sarà obsoleta), come l'Eurofighter, di cui l'Italia era coproduttore di primo livello. A tale alto livello tecnologico ed occupazionale si è preferito quello relativo all'assemblaggio puro delle ali dell'F35 e ad un'occupazione di poche centinaia di unità, come hanno messo in evidenza fonti sindacali. A questo proposito si è detto erroneamente che era un impegno NATO: altri paesi europei hanno fatto scelte ben diverse, come nel caso tedesco e francese. In realtà, tutto ciò rientra nell'ondivaga politica italiana che anche in questo ambito non riesce a scegliere con decisione tra l'impegno industriale in ambito europeo con ruoli di rilievo primario e quello di partner secondario con Washington. Questo, però, dipende anche dalla debolezza della politica della difesa comune europea. Quel che si sta notando è che il Parlamento, dopo decenni di torpore e di accondiscendenza, sta mostrando di voler riprendere un ruolo attivo in questo settore.

L'appartenenza dell'Italia ad Organismi Internazionali, quali l'ONU e la Nato, comporta il rispetto di regole che abbiamo accettato consapevolmente. Condivide la scelta del nostro Governo di svolgere nella crisi libica il ruolo che sarà deciso dal Consiglio di Sicurezza? E se il Consiglio deciderà di non decidere?
E' certamente necessario ed indispensabile svolgere un'azione di stabilizzazione in Libia e, più in generale, nel bacino mediterraneo. Non dobbiamo dimenticare, però, che l'instabilità è stata creata da noi - paesi industrializzati - con le massicce forniture di armi, con gli interventi armati di regime change, in Iraq come in Libia, con l'inazione rispetto al conflitto siriano, con l'emarginazione pluriennale dell'ONU chiamata solo a convalidare con il crisma della legalità internazionale gravi decisioni prese altrove. Non dimentichiamo che i militanti dello Stato Islamico, come quelli di Boko Haram e tanti altri in Siria o in Mali, combattono con le armi che abbiamo fornito loro. La Libia, purtroppo, è esemplare in tal senso: abbiamo sostenuto per anni e in vario modo il regime di Gheddafi, anche armandolo abbondantemente, poi lo abbiamo attaccato (mentre il nostro governo affermava che non partecipavamo ad azioni di guerra - 710 tra bombe e missili, con il 96% di successo, come ha dichiarato il gen. De Bernardis a "L'Espresso" il 24/2/2012), poi abbiamo lasciato la Libia al suo destino, incuranti, tra l'altro, del fatto che quel paese non avesse una forte identità nazionale (divisa tra Cirenaica e Tripolitania, in primis) e rischiasse di divenire una seconda Somalia. Adesso, di fronte al caos, si ipotizza un altro intervento. Con quale lucidità? Sarebbe opportuno operare non sull'onda delle emozioni e dell'urgenza, altrimenti non solo aggraveremo la situazione libica, ma faremo un ulteriore grande favore al terrorismo islamico che potrebbe invocare il jihad contro i nuovi crociati.

 L'Italia, dopo aver assunto un ruolo protagonista nel salvataggio di vite umane nel Mediterraneo con l'operazione Mare Nostrum, ora è stata coinvolta nel tributo di sangue voluto dalle frange impazzite dell'Is nell'attacco a Tunisi. Alcuni settori dell'opinione pubblica spingono per ripetere gli errori commessi nel 2011 da francesi ed inglesi, con l'acquiescenza dell'Italia. Cosa ne pensa?
Ci sono purtroppo forze politiche che sfruttano la paura per le proprie brevi fortune elettorali, senza tener conto che attualmente è in corso un conflitto non tra islam e cristianesimo, ma tra terrorismo islamico radicale e resto del mondo, islam compreso. Basta pensare all'alto prezzo pagato dal Pakistan, che è al terzo posto a livello mondiale per attacchi terroristici e ha avuto nel 2013 un incremento dei morti del 37% rispetto al 2012. Oltre l'80% delle vittime del terrorismo nel 2013 sono concentrate in soli cinque paesi:  Iraq, Afghanistan, Pakistan, Nigeria e Siria. Basta leggersi il Global Terrorism Index 2014 per comprendere la globalizzazione di questo fenomeno. Purtroppo, la nostra tradizionale disattenzione culturale alle vicende internazionali ci fa scoprire d'improvviso che il mondo sta vivendo una drammatica crisi solo quando qualche nostro connazionale viene coinvolto in queste tragedie. Il fenomeno migratorio a cui è esposta l'Italia da alcuni anni era la spia, il segnale di allarme di un sistema al collasso. Basterebbe fare attenzione anche solo al recentissimo rapporto dell'ONU sulla scarsità mondiale dell'acqua, che ci dice che circa 750 milioni di persone non hanno oggi accesso all'acqua potabile e fra 15 anni vi sarà un ulteriore calo del 40% di disponibilità di questa risorsa fondamentale. Quanti miliardi di persone vi saranno allora coinvolti? A queste sfide dobbiamo rispondere e non servirà a nulla arroccarci nelle nostre fortezze, se non a perdere tempo prezioso. Ipotesi neocoloniali di interventi militari tesi a riportare la pace in Libia non solo mostrano d'ignorarne la realtà storica, ma anche quella attuale e le pregresse esperienze negative in Iraq e in Afghanistan. Historia magistra vitae, diceva Cicerone, sbagliando clamorosamente.

Fonte: http://www.italiani.net/index.php/esteri/484-armi,-conflitti,-terrore.html

Argomento: 
Attualità e Politica