Periodico di informazione delle Forze Armate, Forze di Polizia e Pubblico Impiego

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha accertato la violazione degli articoli 3 e 6 della Convenzione e condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti durante il servizio militare[1].

L’oggetto della pronuncia riguarda il trattamento subito da un cittadino italiano durante il servizio militare. Sebbene durante le visite fosse risultato lento nella comprensione e nell’esecuzione e avesse ottenuto una valutazione di 4 su 10 in ogni area delle competenze culturali, delle prestazioni mentali e del comportamento, ciononostante, fu dichiarato idoneo al servizio di leva.

Per questo suo deficit durante la vita militare fu sottoposto a numerose punizioni tra cui ventiquattro giorni di reclusione – anche in isolamento – per motivi che andavano dalla cura negligente della branda, all’atteggiamento ritenuto troppo informale nei confronti dei superiori.

A seguito di evidenti tic nervosi e contrazioni venne sottoposto nuovamente a visita e gli venne diagnosticato uno stato d’ansia e di fragilità mentale.

Ci si rese finalmente conto delle sue incapacità e difficoltà di apprendimento. I test rivelarono che non era in grado di svolgere i compiti assegnati, aveva le funzioni cognitive alterate e addirittura difficoltà a orientarsi. Queste precarie condizioni di salute gli facevano vivere la vita militare con ansia e in costante paura.

I medici ritennero che continuare a svolgere il servizio militare avrebbe aggravato la sua ansia e che si sarebbe accentuato il suo atteggiamento difensivo derivante dal suo stato di paura costante. Per questo fu dichiarato inidoneo al servizio di leva.

Il ricorrente richiese al Ministro della Difesa un risarcimento danni ritenendo provato il nesso tra la sua condizione di salute e il servizio militare prestato.

La Commissione medica territoriale riconobbe il disturbo, ma ritenne che non fosse una conseguenza del servizio militare; per questo motivo il Ministero della Difesa rigettò la richiesta di risarcimento danni.

Avverso il provvedimento, il ricorrente si rivolse alla giustizia amministrativa, tuttavia la sua richiesta fu respinta prima dal T.A.R. e poi dal Consiglio di Stato.

La C.E.D.U., investita del caso, ha dichiarato la violazione dell’articolo 3 della Convenzione che sancisce il divieto di trattamenti inumani e degradanti.

Secondo la giurisprudenza consolidata della C.E.D.U., infatti, sullo Stato grava un obbligo generale di vigilare affinché nessuno sia sottoposto a tali trattamenti. Pertanto, tenuto conto delle esigenze pratiche del servizio militare, gli Stati devono istituire un SISTEMA EFFICACE DI CONTROLLO MEDICO, allo scopo di garantire che la salute e il benessere dei militari non siano messi in pericolo e la loro dignità umana possa essere compromessa durante il servizio militare.

Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che le autorità responsabili abbiano tenuto una condotta negligente. Il servizio e le punizioni cui il ricorrente è stato sottoposto – per quanto di poco conto per una persona in normali condizioni fisiche e psichiche – hanno avuto degli effetti assolutamente negativi.

Al di là del caso di specie, è molto interessante e condivisibile il ragionamento che ha fatto la Corte per giungere alle sue conclusioni.

Essa ha dichiarato la violazione del diritto a un equo processo per imparzialità e terzietà del giudice, essendo stato violato il principio di parità delle armi.

In considerazione della composizione di tale Collegio è venuta meno la garanzia d’imparzialità e terzietà del Tribunale. In fondo il Consiglio di Stato si è basato sulla perizia del Collegio medico legale della Difesa; Collegio che difettava del requisito della terzietà.

La C.E.D.U. ha ribadito che la mancanza di neutralità da parte di un esperto nominato dal Tribunale può dare luogo, in determinate circostanze, ad una violazione del principio della parità delle armi. Nel caso di specie, il Collegio medico era composto da medici militari, con l’eccezione di un solo membro laico, nominati e stipendiati dal Ministro della Difesa. Tale composizione, secondo la C.E.D.U., non è conforme a quelle esigenze d’imparzialità richieste dalla Convenzione.

Per questo motivo la Corte ha dichiarato la violazione dell’articolo 6 della Convenzione e riconosciuto al ricorrente, 40.000 euro per danni morali e 17.000 euro per le spese legali. Dichiarando tale violazione la Corte ha ritenuto assorbiti i profili di violazione lamentati sotto il profilo dell’articolo 13 della Convenzione.

Il ragionamento della Corte è importante perché si presta per essere esteso ad altri ambiti della giustizia militare e, in particolare a quelli descritti nel contributo correlato che segue.

In sintesi la Corte europea ha stabilito che lo status militis non è sufficiente per garantire l’imparzialità in assenza di terzietà; pertanto, quel fascio di luce rilevato dal flir nel corso della prova di laboratorio non era affatto di natura spiritosa, come alcuni si ostinano a voler sostenere, ma era certamente di origine gassosa. Per un chiarimento su questo punto leggi il seguente contributo correlato:

(*)http://www.ficiesse.it/home-page/8873/la-specificita_-militare-alla-prov...

Cleto Iafrate

 

[1] Per leggere la sentenza del caso Placì c. Italia, clicca sul seguente linK:

 

http://hudoc.echr.coe.int/sites/eng/pages/search.aspx?i=001-140028

 

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