Periodico di informazione delle Forze Armate, Forze di Polizia e Pubblico Impiego

Tu non devi parlare dei miei problemi personali davanti agli altri!”: non configura reato di insubordinazione la frase che un caporal maggiore ha rivolto - nel 2012 - al suo diretto superiore. In linea con quanto stabilito dal gup del tribunale militare di Roma, la Cassazione ha ridimensionato la portata delle accuse rivolte all'imputato, rigettando il ricorso presentato dal procuratore del tribunale militare.

I contorni della vicenda si evincono chiaramente dalla sentenza depositata il 14 settembre: il sottoposto che rinfaccia al proprio capitano di avergli negato la possibilità di prestare servizio in un luogo a lui caro, il superiore che ribatte l'indisponibilità incassata in precedenti occasioni, finchè la lite non deflagra davanti a terzi, attraverso l'uso di espressioni e di modalità di interlocuzione che poco si confanno al codice militare.

Nulla che intacchi, però, il prestigio, l'onore e la reputazione del capitano. Convengono infatti i giudici della Suprema Corte che, pur essendo la condotta dell'imputato espressiva di disprezzo e di arroganza, non mini in alcun modo l'integrità e l'effettività del rapporto gerarchico, “funzionale al mantenimento della compattezza e dell'efficienza delle forze armate”. 

I giudici partono da un assunto chiave: quello che il prestigio di un militare alto in grado si misuri attraverso l'autorevolezza conquistata giorno dopo giorno e non sia “dovuto”.

Una mera questione di bon ton, quindi: le frasi proferite dall'imputato sono impertinenti, ma non ingiuriose, spregiative, mortificanti o avvilenti e non sottendono un rifiuto dell'autorità gerarchica.

Neanche l'uso del “tu” - bandito dal galateo militare - può essere considerato disonorevole o sprezzante.

D'altronde, concludono i giudici, la mera contestazione costituisce pur sempre espressione di quel diritto di critica valido anche nelle Forze armate.

Fonte Il Sole 24 ore

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