Periodico di informazione delle Forze Armate, Forze di Polizia e Pubblico Impiego

Ci risiamo. Ancora una volta le vittime da sangue infetto sono dovute emigrare alla Corte europea dei diritti dell’uomo per veder riconosciuti diritti costituzionalmente sanciti. Di questo si è occupato a lungo l’inca che ha promosso diverse cause legali. L'ultima sentenza della Cedu di gennaio 2016 ha condannato lo Stato italiano a risarcire 350 cittadini infettati da vari virus (Aids, epatite B e C) attraverso le trasfusioni di sangue che hanno effettuato durante un ciclo di cure o un'operazione. Il totale dei risarcimenti è di 10 milioni di euro e coinvolge tutti i cittadini danneggiati che hanno aderito alla transazione per il risarcimento del danno,  che prescinde dall’indennizzo disposto dalla legge 210/92.

Oltre all’indennizzo, infatti, molte persone danneggiate hanno promosso azioni risarcitorie contro il ministero, per la mancata vigilanza sull’importazione, distribuzione e commercializzazione di emoderivati. Qui si apre un'altra triste pagina piena di lungaggini e incomprensioni. Il danno procurato dalle molteplici cause ha portato, nel 2007, all’emanazione di una legge che prevedeva lo stanziamento di fondi pubblici da utilizzare per transare tutte le cause di risarcimento in corso. Dopo un lustro, nel quale si sono succeduti tre governi, nel 2012 è stato approvato il “decreto moduli” che fissava tutte le condizioni necessarie per accedere alle transazioni, introducendo criteri restrittivi che hanno impedito alla stragrande maggioranza delle vittime di esercitare appieno il loro diritto. Il gran pasticcio del decreto moduli, l’eccessiva durata delle transazioni e dei processi civili di risarcimento hanno portato l’Italia a cospetto della Corte europea.

 Già nel 2013 la Corte Europea era intervenuta, condannando l’Italia, sull’annosa questione della rivalutazione dell’indennità integrativa speciale. In quell’occasione, nonostante l’orientamento giurisprudenziale consolidato negli anni, le innumerevoli cause perse, nonostante il pronunciamento della Corte Costituzionale, lo stato italiano aveva fatto “spallucce” creando forti dubbi sul senso di giustizia dello stato italiano. È passato quasi un quarto di secolo e il pagamento delle indennità non è ancora a regime, le regioni, infatti, competenti della gestione degli indennizzi dal 2001, in mancanza di stanziamenti dallo stato dal 2012, hanno rallentato il processo di adeguamento degli importi indennizzati. Solo in questi giorni, dopo aver ricevuto la prima rata dei fondi stanziati per legge (art. 1, comma 186, legge 190/2014) (legge di stabilità 2015), hanno iniziato a programmare, con criteri deversi, le modalità di pagamento.

L’onda d’urto provocata dalla sentenza CEDU del 2013, quindi, ha portato l’attuale Governo Renzi a emanare la legge 114/2014, in cui all'articolo 27 bis lo Stato italiano ha prodotto un 'rimedio legislativo'  senza il quale sarebbe stato sanzionato a pieno dalla Corte Europea. Avviene, così, il secondo tentativo di transazione, la cosiddetta "equa riparazione". Chi aveva fatto a suo tempo la domanda di transazione (entro il 19 gennaio 2010), poteva accedere alla procedura di "equa riparazione" che prevede un risarcimento di un importo fisso unico di 100mila euro. L'accettazione di questa cifra avrebbe comportato la chiusura di ogni contenzioso. Alla procedura, che deve per legge concludersi entro il 31 dicembre 2017, hanno fatto ricorso 7 mila persone. Nel 2015 sono stati evasi 1.100 ordini di pagamento per "equa riparazione", che corrispondevano a 700 contenziosi, 750 non hanno accettato e hanno preferito seguire l'iter processuale.

Il nuovo pronunciamento della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo se da una parte ritiene equa la somma di 100mila euro prevista dalla legge per chi ha deciso di avvalersi di una procedura transattiva, dall’altra non giustifica, invece, i ritardi relativi alle cause civili di risarcimento del danno instaurate in Italia, ritardi, tuttavia, la cui rilevanza o meno ai fini della Convenzione deve essere valutata caso per caso alla luce dello sviluppo processuale dei singoli giudizi. Proprio per l’eccessiva durata dei processi, Strasburgo  ha liquidato, in favore di ogni singolo danneggiato, una somma, a titolo di danno morale, compresa per lo più tra i 20 mila e i 30 mila euro. Somme cui i danneggiati potrebbero essere comunque costretti a rinunciare, qualora decidessero di accettare l’equa riparazione.

Secondo la ricostruzione della Direzione generale della vigilanza sugli enti e della sicurezza delle cure del ministero della Salute, la sentenza di Strasburgo riguarda 900 cittadini che hanno fatto ricorso alla Corte di Strasburgo. La vicenda invece investe migliaia di persone che sono state infettate da virus Hiv, epatite B o C, a causa di una trasfusione di sangue cui sono stati sottoposti o a fini terapeutici, o in occasione d’interventi chirurgici. I danneggiati che hanno fatto ricorso a Strasburgo sono nati tra il 1921 e il 1993. Molti hanno contratto i virus dopo il 24 luglio del 1978, ma tra di loro ci sono anche soggetti contagiati dal 1971 in poi. Le infezioni da emoderivati, in generale, sono in minima parte.

Quanto alle "colpe" riconosciute, per la Corte, l'Italia ha violato gli artt. 2 (diritto alla vita), l'art. 6 comma 1 (diritto a un equo processo) e 13 (diritto a un risarcimento effettivo), della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha condannato l'Italia per la lunghezza dei processi civili per ottenere il risarcimento,  per il ritardato pagamento del risarcimento del danno, per la mancata conclusione delle procedure transattive.

 

 Roberto Scipioni, Area danni da lavoro Inca nazionale

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