Periodico di informazione delle Forze Armate, Forze di Polizia e Pubblico Impiego

La Corte d’Appello di Roma ha condannato il generale dell’Esercito Bruno Stano a risarcire le 19 vittime dell’attentato di al-Qaeda che il 12 novembre 2003 vide un camion bomba farsi esplodere all’ingresso della base dei carabinieri “Maestrale” lungo le rive del fiume Eufrate.

Assolto dopo un lungo iter processuale penale, il generale Stano che all’epoca guidava la Brigata meccanizzata Sassari nella città irachena, è stato condannato in sede civile per aver esposto i militari a un rischio eccessivo. La sentenza, che arriva dopo 13 anni dal tragico attentato che uccise anche 9 iracheni, sottolinea che Stano ha “ignorato gli allarmi dell’intelligence” circa il rischio di attentati e avrebbe “sottovalutato il pericolo di una base troppo esposta”.

Dopo l’attentati che il 19 agosto devastò la sede dell’Onu a Baghdad gli allarmi dell’intelligence s moltiplicarono in tutto l’Iraq e il contingente italiano dell’operazione Antica Babilonia ritirò infatti dalla città di Nassirya due avamposti presidiati dai militari concentrando le forze su due basi (Tallil e White Horse”, situate a 20 e 5 chilometri dalla città) lasciando a Nassirya le due basi dei carabinieri Libeccio e Maestrale.

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 Il rischio attentati indusse il comando a rinforzare le difese passive delle basi fin da prima che arrivasse la brigata Sassari, quando  a presidiare l’area vi erano ancora i bersaglieri della brigata Garibaldi. I genieri rinforzarono per primi i perimetri delle basi  esterne, facile dire col senno di poi che sarebbe stato più utile cominciare da quelle dei carabinieri rimaste in città.

 Così come si sarebbe dovuto chiudere il traffico di uno dei tre ponti sull’Eufrate e nelle strade intorno alla base. Misure che però  avrebbero complicato la vita agli abitanti, compromettendo il consenso alla presenza dei militari italiani e soprattutto dei  carabinieri che addestravano e accompagnavano in azione la ricostituita polizia irachena.

 A differenza degli altri contingenti alleati, che tenevano pronti all’impiego i lanciarazzi anticarro (uniche armi in grado di fermare  a distanza ravvicinata un auto o camion bomba), i check-point italiani erano solitamente dotati solo di mitragliatrici. Così come è  innegabile che il deposito di munizioni ubicato vicino all’ingresso della base Maestrale amplificò, esplodendo, il già  considerevole impatto della deflagrazione del camion bomba.

 Assurdo però attribuire al comandante del contingente anche questa responsabilità soprattutto tenendo conto che il generale Stano  aveva assunto il comando da appena un mese ereditando una situazione già avviata.

 

 

Risulta a dir poco contraddittorio che un comandante non sia stato condannato da corti marziali o tribunali penali ma venga poi costretto a risarcire le famiglie delle vittime, peraltro già indennizzate dallo Stato per la morte dei lori cari.

Il precedente risulta devastante per la credibilità militare dell’Italia e per il messaggio che trasmette ai comandanti di oggi e di domani.

Quale generale sarà sereno nel guidare i suoi uomini in operazioni se rischierà di dover rispondere di tasca sua per feriti e caduti?

Nè certo potrà un giovane capitano nell’ordinare alla sua compagnia di attaccare terroristi o miliziani.

Le guerre sono piene di errori di valutazione ma un soldato può risponderne davanti a una corte marziale non in termini di risarcimenti.

Nell’estate 2001 ci furono negli Usa allarmi molto circostanziati che indicarono il rischio di attentati terroristici con l’impiego di aeroplani ma nessun tribunale americano ha mai emesso condanne per risarcire le 3mila vittime dell’11 settembre.

Anche l’intelligence francese aveva avvisato Bonaparte dei rischi connessi a combattere nella steppa d’inverno ma nessun tribunale francese ha mai condannato Napoleone, neppure dopo la sua caduta, a indennizzare i famigliari dei caduti dell’Armèe nella campagna di Russia.

Le truppe italiane in Iraq operavano sotto il comando britannico e di fronte a caduti, attentati e battaglie che coinvolsero le truppe di Londra il premier Tony Blair assunse sulla sua figura la responsabilità per ogni azione compiuta dai militari di Sua Maestà.

 

 

La vicenda del generale Stano costituisce il paradigma di un’Italia che manda i soldati in guerra chiamandola “missione di pace” o “umanitaria” senza dotarli dei mezzi necessari a combattere con efficacia il nemico.

Se le truppe italiane avessero avuto più unità del Genio avrebbero potenziato in tempo utile le “mura” delle basi, se avessero avuto i carri armati avrebbero potuto porli a difesa degli accessi a ponti e basi bloccando ogni minaccia.

I tank invece vennero negati, insieme agli elicotteri da attacco Mangusta, perché “armi offensive” inadatte a una missione di pace e raggiusero Nassirya solo dopo le tre battaglie combattute nel 2004 contro i miliziani sciti da truppe italiane equipaggiate in modo leggero.

La gestione “buonista“ della guerra, in Iraq come in Afghanistan, ha responsabilità politiche prima ancora che militari anche se sarebbe utile rammentare che chi fa il soldato di mestiere può anche morire in guerra.

L’Italia, pur essendo tra le prime 15 potenze militari del mondo, non ha ancora accettato questa apparentemente banale considerazione e infatti per ogni soldato ferito o ucciso, o per ogni miliziano colpito dal fuoco italiano la magistratura civile e quella militare aprono inchieste separate. Come se si trattasse di crimini avvenuti in Italia.

 

di Gianandrea Gaiani

Fonte: Analisidifesa.it

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