Periodico di informazione delle Forze Armate, Forze di Polizia e Pubblico Impiego

Il dil dibattito sulle pensioni si è avvitato fra proposte pauperistiche e fughe in avanti. La previdenza complementare regge bene i colpi ma il governo interviene pesantemente sulla loro organizzazione e decisione degli asset. Respinti al Senato gli emendamenti sulle pensioni.

Le proiezioni delle stime sulle future pensioni sono impietose. Al loro confronto quelle attuali sembrano veramente pensioni d’oro. Ormai come una ineluttabile calamità biblica, tutti si aspettano una pensione inadeguata ma i tentativi per evitarla sono pressocchè zero. Alla Commissione Bilancio del Senato sono stati respinti tutti gli emendamenti relativi alle pensioni. Un’aria di rassegnazione permea tutti specie dopo le ultime diatribe fra Poletti e Tito Boeri e i colpi di maglio che si vogliono assestare ai fondi pensione negoziali con il disegno di legge sulla concorrenza. Messi da parte i dibattiti sulla flessibilità in uscita, mentre sull’opzione donna e sugli esodati, galleggiano fumoserie senza agganci con la realtà, dette così giusto per avere qualche titolo sui giornali. Un atteggiamento serio e costruttivo invece sarebbe quello di proporre l’inserimento di elementi correttivi sul funzionamento del sistema contributivo che evitino ripercussioni eccessivamente negative sulle pensioni.Per esempio prevedere un tasso di capitalizzazione minimo. Cosa di cui nessuno finora ha mai parlato.
Dal 2016 cominceranno a pensionarsi coloro che hanno iniziato a lavorare dal 1996 e sono totalmente in pieno regime contributivo. Se hanno fatto i dirigenti, giornalisti, magistrati, star televisive, non c’è problema, continueranno ad appartenere alle élite pensionistiche, se invece sono esseri normali devono sapere che la legge Dini, a ventanni dalla sua applicazione, archivia le pensioni integrate al minimo.
Quelli che sono andati in pensione negli anni scorsi, non sapevano di essere dei ladri e dei farabutti. Pensavano che la pensione loro liquidata fosse il giusto corrispettivo di una dura vita lavorativa. Per ogni anno di lavoro mettevano da parte il 2% dello stipendio, fino al massimo dell’80% con quarantenni di lavoro. Invece non è così, si cerca di spiegare ora e poiché percepiscono più di quanto versato è ora che restituiscano il maltolto. Il bello è che invece di far inorridire, questa proposta riceve sempre più consensi. Ora c’è il contributivo salvifico ( per i conti pubblici) ma quale sarà l’importo minimo della pensione?
Nel vecchio sistema, quello dell’esecrato retributivo, tanto per intenderci, la pensioni erano integrate al minimo, l’asticella al di sotto della quale un pensionato non può andare.
La pensione integrata al trattamento minimo, viene riconosciuta al pensionato il cui reddito da pensione, sulla base del calcolo dei contributi versati, risulti inferiore ad un livello fissato dalla legge, considerato il “minimo vitale”.
L’importo mensile varia ogni anno. Per il 2015 è stato fissato a 502,38 euro.
Il trattamento minimo spetta in base al reddito, secondo lo schema che segue.
Persone singole:
• integrazione totale, se il reddito è inferiore a 6.517,94 euro annui;
• nessuna integrazione, se il reddito è superiore a 13.035,8 euro annui;
• integrazione parziale, se il reddito è compreso tra tali cifre.
Coppie sposate:
• integrazione totale, se il reddito è inferiore a 19.553,82 euro annui;
• nessuna integrazione, se il reddito è superiore a 26.071,76 euro annui;
• integrazione parziale, se il reddito è compreso tra tali cifre.
I reddito da considerare è quello assoggettabile all’Irpef. Non include le pensioni d’invalidità civile, le rendite Inail e la casa di proprietà.
Ora una cosa del genere viene proposta per i disoccupati di 55 anni in contraddizione con la logica della legge Fornero ed insostenibile economicamente visto che la ripresa economica sembra che si sia già ammosciata con il suo deludente 0,2% nell’ultimo trimestre ( 0,4% il primo e 0,3% il secondo).

Perché è stata soppressa l’integrazione al minimo. Oggi nessuno se lo ricorda, sia il governo che i sindacati, che quando uscì la Dini svolsero un referendum confermativo fra i lavoratori. Il referendum, approvato a larga maggioranza, dette socialmente il via libera alla legge, diversamente dalla riforma Fornero per esempio, che su fatta mediante un decreto legge e senza nessun consulto delle parti sociali. Tanto è vero che ci fu la richiesta di un referendum, questa volta abrogativo, che la Corte Costituzionale ha bocciato.
Quello era un onere da abolire per alleggerire il bilancio dell’Inps e dello Stato su cui furono tutti d’accordo. Di fronte alla conseguente diminuzione dell’assegno pensionistico, dovuto all’introduzione del sistema di calcolo contributivo e poi dell’eliminazione dell’integrazione al minimo, ci fu la ricerca di uno strumento compensativo che rialzasse gli importi.
Che fu trovata nella previdenza complementare. Che rimane comunque un oggetto misterioso al grande pubblico e che l’attuale governo, pur paventando future “bombe sociali” come ha dichiarato il ministro Poletti, a causa dell’esiguità delle pensioni, scoraggia in tutti i modi.
Ogni lavoratore si sarebbe dovuto costruire il suo minimo vitale accumulando con la pensione complementare un’integrazione maggiore e più consistente.
Invece gli assicurati alla previdenza complementare ad oggi sono poco più di 6milioni, a fronte di una platea di 25 milioni. I dipendenti pubblici lo 0.5%. Ed anche qui, mentre i ministeriali e la scuola hanno un fondo di riferimento, cui comunque aderiscono col contagocce, interi settori pubblici non hanno alcuna tutela integrativa, mi riferisco per esempio al comparto delle Forse Armate.
Di fronte a questa realtà, per porvi rimedio in qualche modo, si è istituito l’importo minimo obbligatorio per poter andare in pensione.
Per i lavoratori il cui primo accredito contributivo è stato versato dopo il 1° gennaio 1996, per poter andare in pensione devono aver maturato un importo che deve essere non inferiore a 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale che, per il 2014, è stato fissato dall’Inps a 447,61 euro (rivalutato annualmente.
In pratica, per accedere oggi alla pensione si dovrebbe aver maturato almeno un importo di 675 euro. Per la pensione anticipata l’importo della prima rata di pensione non potrà essere inferiore all’importo minimo pari a 2,8 volte l’ammontare mensile dell’assegno sociale, circa 1240 euro mensile.
Col metodo contributivo, la pensioni è pari all’incirca al 55% in media del reddito percepito. Considerando che soprattutto i giovani percepiscono in media stipendi da 1000 euro al mese, c‘è il rischio che molti non arriveranno al requisito dell’importo minimo, e dovranno lavorare almeno fino ai 70 anni (ma probabilmente anche il requisito anagrafico sarà innalzato, per adeguarsi all’aumento dell’aspettativa di vita). E, dopo una vita di lavoro, si ritroveranno comunque con la metà dei soldi in tasca rispetto a quando lavoravano.
Ha ragione Poletti quando paventa una e propria emergenza sociale, a cui bisognerà porre rimedio, se non si vuole che buona parte dei lavoratori italiani passino la vecchiaia in situazioni che sfiorano la povertà.
In attesa di una nuova riforma generale, il singolo lavoratore può fare qualcosa? Una risposta può arrivare dalla previdenza integrativa. Ma anche qui ci sono dei possibili agguati. Il ddl sulla concorrenza interferisce pesantemente sulla vita e l’organizzazione dei fondi pensione negoziali Questi sono associazioni di carattere private, non pubbliche amministrazioni. Nonostante una gestione e risultati positivi, il governo vuole interferire sulla governance indicando i criteri di nomina degli amministratori e obbligando i fondi a… fondersi, non si capisce perché. Forse per favorire le banche e le assicurazioni, Le motivazioni ufficiali sono chiacchiere. I fondi attualmente sono efficaci ed efficienti e remunerativi. Certo tutto è migliorabile, ma le cose a cui pensare è quello di mettere in campo ulteriori incentivi fiscali dove si fa in tutti i Paesi dell’Ocse, invece di pensare a togliere l’Imu a pioggia.

Camillo Linguellabattito sulle pensioni si è avvitato fra proposte pauperistiche e fughe in avanti. La previdenza complementare regge bene i colpi ma il governo interviene pesantemente sulla loro organizzazione e decisione degli asset. Respinti al Senato gli emendamenti sulle pensioni.
Le proiezioni delle stime sulle future pensioni sono impietose. Al loro confronto quelle attuali sembrano veramente pensioni d’oro. Ormai come una ineluttabile calamità biblica, tutti si aspettano una pensione inadeguata ma i tentativi per evitarla sono pressocchè zero. Alla Commissione Bilancio del Senato sono stati respinti tutti gli emendamenti relativi alle pensioni. Un’aria di rassegnazione permea tutti specie dopo le ultime diatribe fra Poletti e Tito Boeri e i colpi di maglio che si vogliono assestare ai fondi pensione negoziali con il disegno di legge sulla concorrenza. Messi da parte i dibattiti sulla flessibilità in uscita, mentre sull’opzione donna e sugli esodati, galleggiano fumoserie senza agganci con la realtà, dette così giusto per avere qualche titolo sui giornali. Un atteggiamento serio e costruttivo invece sarebbe quello di proporre l’inserimento di elementi correttivi sul funzionamento del sistema contributivo che evitino ripercussioni eccessivamente negative sulle pensioni.Per esempio prevedere un tasso di capitalizzazione minimo. Cosa di cui nessuno finora ha mai parlato.
Dal 2016 cominceranno a pensionarsi coloro che hanno iniziato a lavorare dal 1996 e sono totalmente in pieno regime contributivo. Se hanno fatto i dirigenti, giornalisti, magistrati, star televisive, non c’è problema, continueranno ad appartenere alle élite pensionistiche, se invece sono esseri normali devono sapere che la legge Dini, a ventanni dalla sua applicazione, archivia le pensioni integrate al minimo.
Quelli che sono andati in pensione negli anni scorsi, non sapevano di essere dei ladri e dei farabutti. Pensavano che la pensione loro liquidata fosse il giusto corrispettivo di una dura vita lavorativa. Per ogni anno di lavoro mettevano da parte il 2% dello stipendio, fino al massimo dell’80% con quarantenni di lavoro. Invece non è così, si cerca di spiegare ora e poiché percepiscono più di quanto versato è ora che restituiscano il maltolto. Il bello è che invece di far inorridire, questa proposta riceve sempre più consensi. Ora c’è il contributivo salvifico ( per i conti pubblici) ma quale sarà l’importo minimo della pensione?
Nel vecchio sistema, quello dell’esecrato retributivo, tanto per intenderci, la pensioni erano integrate al minimo, l’asticella al di sotto della quale un pensionato non può andare.
La pensione integrata al trattamento minimo, viene riconosciuta al pensionato il cui reddito da pensione, sulla base del calcolo dei contributi versati, risulti inferiore ad un livello fissato dalla legge, considerato il “minimo vitale”.
L’importo mensile varia ogni anno. Per il 2015 è stato fissato a 502,38 euro.
Il trattamento minimo spetta in base al reddito, secondo lo schema che segue.
Persone singole:
• integrazione totale, se il reddito è inferiore a 6.517,94 euro annui;
• nessuna integrazione, se il reddito è superiore a 13.035,8 euro annui;
• integrazione parziale, se il reddito è compreso tra tali cifre.
Coppie sposate:
• integrazione totale, se il reddito è inferiore a 19.553,82 euro annui;
• nessuna integrazione, se il reddito è superiore a 26.071,76 euro annui;
• integrazione parziale, se il reddito è compreso tra tali cifre.
I reddito da considerare è quello assoggettabile all’Irpef. Non include le pensioni d’invalidità civile, le rendite Inail e la casa di proprietà.
Ora una cosa del genere viene proposta per i disoccupati di 55 anni in contraddizione con la logica della legge Fornero ed insostenibile economicamente visto che la ripresa economica sembra che si sia già ammosciata con il suo deludente 0,2% nell’ultimo trimestre ( 0,4% il primo e 0,3% il secondo).

Perché è stata soppressa l’integrazione al minimo. Oggi nessuno se lo ricorda, sia il governo che i sindacati, che quando uscì la Dini svolsero un referendum confermativo fra i lavoratori. Il referendum, approvato a larga maggioranza, dette socialmente il via libera alla legge, diversamente dalla riforma Fornero per esempio, che su fatta mediante un decreto legge e senza nessun consulto delle parti sociali. Tanto è vero che ci fu la richiesta di un referendum, questa volta abrogativo, che la Corte Costituzionale ha bocciato.
Quello era un onere da abolire per alleggerire il bilancio dell’Inps e dello Stato su cui furono tutti d’accordo. Di fronte alla conseguente diminuzione dell’assegno pensionistico, dovuto all’introduzione del sistema di calcolo contributivo e poi dell’eliminazione dell’integrazione al minimo, ci fu la ricerca di uno strumento compensativo che rialzasse gli importi.
Che fu trovata nella previdenza complementare. Che rimane comunque un oggetto misterioso al grande pubblico e che l’attuale governo, pur paventando future “bombe sociali” come ha dichiarato il ministro Poletti, a causa dell’esiguità delle pensioni, scoraggia in tutti i modi.
Ogni lavoratore si sarebbe dovuto costruire il suo minimo vitale accumulando con la pensione complementare un’integrazione maggiore e più consistente.
Invece gli assicurati alla previdenza complementare ad oggi sono poco più di 6milioni, a fronte di una platea di 25 milioni. I dipendenti pubblici lo 0.5%. Ed anche qui, mentre i ministeriali e la scuola hanno un fondo di riferimento, cui comunque aderiscono col contagocce, interi settori pubblici non hanno alcuna tutela integrativa, mi riferisco per esempio al comparto delle Forse Armate.
Di fronte a questa realtà, per porvi rimedio in qualche modo, si è istituito l’importo minimo obbligatorio per poter andare in pensione.
Per i lavoratori il cui primo accredito contributivo è stato versato dopo il 1° gennaio 1996, per poter andare in pensione devono aver maturato un importo che deve essere non inferiore a 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale che, per il 2014, è stato fissato dall’Inps a 447,61 euro (rivalutato annualmente.
In pratica, per accedere oggi alla pensione si dovrebbe aver maturato almeno un importo di 675 euro. Per la pensione anticipata l’importo della prima rata di pensione non potrà essere inferiore all’importo minimo pari a 2,8 volte l’ammontare mensile dell’assegno sociale, circa 1240 euro mensile.
Col metodo contributivo, la pensioni è pari all’incirca al 55% in media del reddito percepito. Considerando che soprattutto i giovani percepiscono in media stipendi da 1000 euro al mese, c‘è il rischio che molti non arriveranno al requisito dell’importo minimo, e dovranno lavorare almeno fino ai 70 anni (ma probabilmente anche il requisito anagrafico sarà innalzato, per adeguarsi all’aumento dell’aspettativa di vita). E, dopo una vita di lavoro, si ritroveranno comunque con la metà dei soldi in tasca rispetto a quando lavoravano.
Ha ragione Poletti quando paventa una e propria emergenza sociale, a cui bisognerà porre rimedio, se non si vuole che buona parte dei lavoratori italiani passino la vecchiaia in situazioni che sfiorano la povertà.
In attesa di una nuova riforma generale, il singolo lavoratore può fare qualcosa? Una risposta può arrivare dalla previdenza integrativa. Ma anche qui ci sono dei possibili agguati. Il ddl sulla concorrenza interferisce pesantemente sulla vita e l’organizzazione dei fondi pensione negoziali Questi sono associazioni di carattere private, non pubbliche amministrazioni. Nonostante una gestione e risultati positivi, il governo vuole interferire sulla governance indicando i criteri di nomina degli amministratori e obbligando i fondi a… fondersi, non si capisce perché. Forse per favorire le banche e le assicurazioni, Le motivazioni ufficiali sono chiacchiere. I fondi attualmente sono efficaci ed efficienti e remunerativi. Cel dibattito sulle pensioni si è avvitato fra proposte pauperistiche e fughe in avanti. La previdenza complementare regge bene i colpi ma il governo interviene pesantemente sulla loro organizzazione e decisione degli asset. Respinti al Senato gli emendamenti sulle pensioni.

Le proiezioni delle stime sulle future pensioni sono impietose. Al loro confronto quelle attuali sembrano veramente pensioni d’oro. Ormai come una ineluttabile calamità biblica, tutti si aspettano una pensione inadeguata ma i tentativi per evitarla sono pressocchè zero. Alla Commissione Bilancio del Senato sono stati respinti tutti gli emendamenti relativi alle pensioni. Un’aria di rassegnazione permea tutti specie dopo le ultime diatribe fra Poletti e Tito Boeri e i colpi di maglio che si vogliono assestare ai fondi pensione negoziali con il disegno di legge sulla concorrenza. Messi da parte i dibattiti sulla flessibilità in uscita, mentre sull’opzione donna e sugli esodati, galleggiano fumoserie senza agganci con la realtà, dette così giusto per avere qualche titolo sui giornali. Un atteggiamento serio e costruttivo invece sarebbe quello di proporre l’inserimento di elementi correttivi sul funzionamento del sistema contributivo che evitino ripercussioni eccessivamente negative sulle pensioni.Per esempio prevedere un tasso di capitalizzazione minimo. Cosa di cui nessuno finora ha mai parlato.
Dal 2016 cominceranno a pensionarsi coloro che hanno iniziato a lavorare dal 1996 e sono totalmente in pieno regime contributivo. Se hanno fatto i dirigenti, giornalisti, magistrati, star televisive, non c’è problema, continueranno ad appartenere alle élite pensionistiche, se invece sono esseri normali devono sapere che la legge Dini, a ventanni dalla sua applicazione, archivia le pensioni integrate al minimo.
Quelli che sono andati in pensione negli anni scorsi, non sapevano di essere dei ladri e dei farabutti. Pensavano che la pensione loro liquidata fosse il giusto corrispettivo di una dura vita lavorativa. Per ogni anno di lavoro mettevano da parte il 2% dello stipendio, fino al massimo dell’80% con quarantenni di lavoro. Invece non è così, si cerca di spiegare ora e poiché percepiscono più di quanto versato è ora che restituiscano il maltolto. Il bello è che invece di far inorridire, questa proposta riceve sempre più consensi. Ora c’è il contributivo salvifico ( per i conti pubblici) ma quale sarà l’importo minimo della pensione?
Nel vecchio sistema, quello dell’esecrato retributivo, tanto per intenderci, la pensioni erano integrate al minimo, l’asticella al di sotto della quale un pensionato non può andare.
La pensione integrata al trattamento minimo, viene riconosciuta al pensionato il cui reddito da pensione, sulla base del calcolo dei contributi versati, risulti inferiore ad un livello fissato dalla legge, considerato il “minimo vitale”.
L’importo mensile varia ogni anno. Per il 2015 è stato fissato a 502,38 euro.
Il trattamento minimo spetta in base al reddito, secondo lo schema che segue.
Persone singole:
• integrazione totale, se il reddito è inferiore a 6.517,94 euro annui;
• nessuna integrazione, se il reddito è superiore a 13.035,8 euro annui;
• integrazione parziale, se il reddito è compreso tra tali cifre.
Coppie sposate:
• integrazione totale, se il reddito è inferiore a 19.553,82 euro annui;
• nessuna integrazione, se il reddito è superiore a 26.071,76 euro annui;
• integrazione parziale, se il reddito è compreso tra tali cifre.
I reddito da considerare è quello assoggettabile all’Irpef. Non include le pensioni d’invalidità civile, le rendite Inail e la casa di proprietà.
Ora una cosa del genere viene proposta per i disoccupati di 55 anni in contraddizione con la logica della legge Fornero ed insostenibile economicamente visto che la ripresa economica sembra che si sia già ammosciata con il suo deludente 0,2% nell’ultimo trimestre ( 0,4% il primo e 0,3% il secondo).

Perché è stata soppressa l’integrazione al minimo. Oggi nessuno se lo ricorda, sia il governo che i sindacati, che quando uscì la Dini svolsero un referendum confermativo fra i lavoratori. Il referendum, approvato a larga maggioranza, dette socialmente il via libera alla legge, diversamente dalla riforma Fornero per esempio, che su fatta mediante un decreto legge e senza nessun consulto delle parti sociali. Tanto è vero che ci fu la richiesta di un referendum, questa volta abrogativo, che la Corte Costituzionale ha bocciato.
Quello era un onere da abolire per alleggerire il bilancio dell’Inps e dello Stato su cui furono tutti d’accordo. Di fronte alla conseguente diminuzione dell’assegno pensionistico, dovuto all’introduzione del sistema di calcolo contributivo e poi dell’eliminazione dell’integrazione al minimo, ci fu la ricerca di uno strumento compensativo che rialzasse gli importi.
Che fu trovata nella previdenza complementare. Che rimane comunque un oggetto misterioso al grande pubblico e che l’attuale governo, pur paventando future “bombe sociali” come ha dichiarato il ministro Poletti, a causa dell’esiguità delle pensioni, scoraggia in tutti i modi.
Ogni lavoratore si sarebbe dovuto costruire il suo minimo vitale accumulando con la pensione complementare un’integrazione maggiore e più consistente.
Invece gli assicurati alla previdenza complementare ad oggi sono poco più di 6milioni, a fronte di una platea di 25 milioni. I dipendenti pubblici lo 0.5%. Ed anche qui, mentre i ministeriali e la scuola hanno un fondo di riferimento, cui comunque aderiscono col contagocce, interi settori pubblici non hanno alcuna tutela integrativa, mi riferisco per esempio al comparto delle Forse Armate.
Di fronte a questa realtà, per porvi rimedio in qualche modo, si è istituito l’importo minimo obbligatorio per poter andare in pensione.
Per i lavoratori il cui primo accredito contributivo è stato versato dopo il 1° gennaio 1996, per poter andare in pensione devono aver maturato un importo che deve essere non inferiore a 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale che, per il 2014, è stato fissato dall’Inps a 447,61 euro (rivalutato annualmente.
In pratica, per accedere oggi alla pensione si dovrebbe aver maturato almeno un importo di 675 euro. Per la pensione anticipata l’importo della prima rata di pensione non potrà essere inferiore all’importo minimo pari a 2,8 volte l’ammontare mensile dell’assegno sociale, circa 1240 euro mensile.
Col metodo contributivo, la pensioni è pari all’incirca al 55% in media del reddito percepito. Considerando che soprattutto i giovani percepiscono in media stipendi da 1000 euro al mese, c‘è il rischio che molti non arriveranno al requisito dell’importo minimo, e dovranno lavorare almeno fino ai 70 anni (ma probabilmente anche il requisito anagrafico sarà innalzato, per adeguarsi all’aumento dell’aspettativa di vita). E, dopo una vita di lavoro, si ritroveranno comunque con la metà dei soldi in tasca rispetto a quando lavoravano.
Ha ragione Poletti quando paventa una e propria emergenza sociale, a cui bisognerà porre rimedio, se non si vuole che buona parte dei lavoratori italiani passino la vecchiaia in situazioni che sfiorano la povertà.
In attesa di una nuova riforma generale, il singolo lavoratore può fare qualcosa? Una risposta può arrivare dalla previdenza integrativa. Ma anche qui ci sono dei possibili agguati. Il ddl sulla concorrenza interferisce pesantemente sulla vita e l’organizzazione dei fondi pensione negoziali Questi sono associazioni di carattere private, non pubbliche amministrazioni. Nonostante una gestione e risultati positivi, il governo vuole interferire sulla governance indicando i criteri di nomina degli amministratori e obbligando i fondi a… fondersi, non si capisce perché. Forse per favorire le banche e le assicurazioni, Le motivazioni ufficiali sono chiacchiere. I fondi attualmente sono efficaci ed efficienti e remunerativi. Certo tutto è migliorabile, ma le cose a cui pensare è quello di mettere in campo ulteriori incentivi fiscali dove si fa in tutti i Paesi dell’Ocse, invece di pensare a togliere l’Imu a pioggia.

Camillo Linguellarto tutto è migliorabile, ma le cose a cui pensare è quello di mettere in campo ulteriori incentivi fiscali dove si fa in tutti i Paesi dell’Ocse, invece di pensare a togliere l’Imu a pioggia.
Camillo Linguella

Fonte: http://www.finanza.com/

Argomento: 
Attualità e Politica