Periodico di informazione delle Forze Armate, Forze di Polizia e Pubblico Impiego

L'allarme per la situazione in Libia conferma che l'impegno delle forze armate sarà sempre più concentrato in direzione del Mediterraneo, con una crescente militarizzazione della Sicilia, a iniziare dal contestatissimo progetto Muos. La fine della Guerra Fredda, soprattutto in regioni come il Veneto e il Friuli Venezia Giulia, lascia però al Paese un'eredità fatta di migliaia di edifici da riconvertire all'uso civile. Un patrimonio inestimabile che non sempre viene valorizzato come meriterebbe di GIAMPAOLO CADALANU
ROMA - Il motto, dicono alla Difesa, è ripensare e ridurre la presenza sul territorio nazionale, ma senza perdere efficienza. E questo vale ancora di più se la sponda sud del Mediterraneo si trasforma in minaccia e alle Forze Armate si chiede prontezza e capacità di intervento in tempi rapidi. Proprio quando le logiche della Guerra Fredda sembravano archiviate, e gli uomini con le stellette erano pronti a fare la loro parte in termini di sacrifici, l'incubo dell'avanzata jihadista vicino alle porte di casa ha riaperto la discussione. Non si parla solo di bilanci, ma anche di risorse sul territorio, indispensabili per l'addestramento e dunque per le necessità di efficienza e prontezza. 

Il discorso su poligoni e servitù militari era stato sospeso, in attesa che si insediasse il nuovo capo dello Stato e che il Libro Bianco voluto dal ministero chiarisse gli obiettivi della Difesa. Senza direttive strategiche, è impossibile sapere quali strutture sono indispensabili e quali invece sacrificabili, e soprattutto per che cosa. Secondo il generale Domenico Rossi, sottosegretario alla Difesa, l'area destinata alle strutture militari ha già subito diverse riduzioni negli ultimi anni. "Le aree addestrative sono lo 0,17 e i poligoni lo 0,2 per cento del territorio nazionale, invece le aree coperte da servitù militari sono meno dello 0,1 per cento, concentrate soprattutto in Sardegna, Friuli, Puglia e Lazio", dice il sottosegretario. Puglia e Friuli hanno già firmato un protocollo d'intesa alla seconda Conferenza sulle servitù militari, "con la Sardegna il dialogo è aperto", aggiunge Rossi.

Ma l'ipotesi di nuove rinunce è vissuta male dai militari, soprattutto quando allo stesso tempo si ragiona su un eventuale intervento in Libia. "Se non avessimo i poligoni come quello di capo Teulada, dove dovremmo addestrare i piloti dei Tornado e degli Eurofighter, che potrebbero essere usati contro i jihadisti?", si chiede un alto ufficiale, aggiungendo poi: "Anche per le missioni di ricognizione con i Predator a pilotaggio remoto, è sempre indispensabile che la simulazione sul computer sia seguita da addestramento reale".

La preoccupazione per l'addestramento non vale solo per lo scenario in cui il ruolo italiano sia affidato unicamente all'Aeronautica. Chiunque segua le vicende militari capisce che prima o poi il territorio deve essere presidiato: in mancanza di alleati affidabili sul terreno, anche l'ipotesi di mandare "boots on the ground", cioè truppe di terra, deve essere valutata. Se l'Italia in passato ha offerto assetti aerei "non letali" (cioè mezzi da ricognizione) e basi, in un possibile intervento in Libia non basterà mettere a disposizione le piste di Trapani, Gioia del Colle, Sigonella. In altre parole, dice un esperto di affari militari, sarà difficile schierare brigate efficienti se non le si fa addestrare adeguatamente. Come già in Iraq e poi in Afghanistan, un'ipotetica missione di terra coinvolgerebbe la Brigata Sassari, la Folgore, le Brigate alpine, e le forze anfibie (San Marco e Lagunari): e secondo gli esperti la garanzia di perdite ridotte arriverebbe solo dai mezzi altamente protetti, come i blindati "Freccia", finora in dotazione ecsclusivamente alla Brigata Pinerolo, o i nuovissimi VTMM "Orso" disponibili per il Genio. Poca fiducia riscuote invece il carro cingolato "Ariete", considerato poco affidabile. E qualche dubbio compare anche sugli elicotteri d'attacco "Mangusta", indispensabili per la difesa delle truppe dall'alto e temutissimi negli anni scorsi dai Taliban, ma in uno scenario libico penalizzati dall'autonomia ridotta. 

In parole povere, sottolinea ancora l'alto ufficiale, fra carenze di addestramento e armamenti insufficienti l'Italia non può intraprendere una missione in Libia se non all'interno di una robusta coalizione. E fra le righe si capisce che secondo molti militari l'uso dei poligoni italiani per le esercitazioni Nato può essere considerato in prospettiva un sacrificio accettabile per far parte di un'alleanza, un prezzo da pagare per la partecipazione degli altri paesi a una missione che preoccupa soprattutto l'Italia.

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