Periodico di informazione delle Forze Armate, Forze di Polizia e Pubblico Impiego

 (Agenzia Nova) - Pianificare le future strategie di peacekeeping attraverso la cooperazione fra forze armate, università e diplomazia per facilitare la ricomposizione dei tessuti civili devastati dalle guerre tra religioni, ma anche prevenire nuovi conflitti. È quanto emerge dal seminario tenutosi  a Roma dal titolo “Peacekeeping: la cooperazione tra diplomazia, forze di pace e università”, organizzato dell’Associazione europea di studi internazionali (Aesi) in collaborazione con il Centro alti studi per la difesa (Casd) e Istituto affari internazionali. All’evento hanno partecipato diversi fra ufficiali militari e diplomatici, fra cui il generale D. Michael Finn, responsabile dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’osservazione della tregua tra Israele e Libano (Untso), il colonnello Thomas Widrich, consigliere politico della forza di difesa dell'Unione europea (Eufor) a Sarajevo (Bosnia). il generale Roberto Martinelli, già comandante della Forza multinazionale e osservatori (Mfo) nel Sinai, Franco Mistretta, già ambasciatore d’Italia e in Libano e Enrico Pietromarchi, già ambasciatore d’Italia a Sarajevo. Il seminario è stato aperto dal messaggio del generale Claudio Graziano, Capo di Stato maggiore della Difesa. Nel suo messaggio il generale Graziano ha sottolineato l’importanza della collaborazione fra Forze armate, università e diplomazia in particolare rispetto alle situazioni di crisi attuali. Secondo Graziano. Non è possibile attuare interventi isolati senza una visione orientata al dialogo e alla cooperazione fra le forze. Per il capo di Stato maggiore occorre favorire gli scambi in più settori nell’ambito della collaborazione in aree di crisi, evitando di utilizzare solo un approccio militare. Graziano ha precisato che lo strumento militare è ovviamente necessario per mantenere la sicurezza nei paesi in cui si opera e garantire le relazioni esterne, ma occorre una spinta di tutti gli attori in campo.

Nel quadro delle operazioni di peacekeeping al seminario è stato affrontato il caso del conflitto israelo-palestinese, dove è attiva la prima missione internazionale organizzata dalle Nazioni Unite, la Untso, Organizzazione Onu per l’osservazione della tregua tra Israele e Libano (Untso). Dell'argomento ha parlato il generale irlandese Michael Finn, a Capo missione Untso a Gerusalemme, il quale ha specificato come la collaborazione fra israeliani e palestinesi a livello universitario abbia avuto e continui ad avere un ruolo determinante nel condurre avanti il processo di riconciliazione, nonostante gli ostacoli a questo approccio. Per Finn, nell’area le barriere stanno crescendo su entrambi i fronti e "oggi si sta assistendo ad una maggiore complessità delle sfide ed è quanto mai necessario una nuova forma di collaborazione fra diplomazia, forze armate e università". Secondo il responsabile dell'Unsto occorre una nuova strategia per sostenere gli interventi internazionali al fine di integrare i giovani e ricostruire la pace. Sempre nell'ambito del conflitto israelo-palestinese si è inserito l'intervento di Sandro De Bernardin, già ambasciatore d’Italia in Israele, secondo il quale il caso in esame è uno dei più drammatici e longevi. Infatti per il diplomatico la ricerca della pace fra Israele e Palestina è un obiettivo della Comunità internazionale e non propriamente delle forze in campo, il cui rapporto è caratterizzato da una sfiducia reciproca. “Se le due realtà sono lasciate sole – ha dichiarato – non si giungerà mai alla pace”. Per De Bernardin vi è una costante tentazione di lavorare in base a fatti compiuti e di utilizzare la violenza e intimidazione come strategia. In questo contesto la scommessa vincente è puntare sui giovani per il dialogo futuro, facendo collaborare università, diplomazia e forze armate. Un esempio è stato il lavoro di questi da parte dell’Ais che ha permesso la collaborazione fra importanti università israeliane e palestinesi, spingendo giovani di entrambe le realtà a collaborare insieme.

Un caso in cui il ruolo l’approccio diversificato e della cooperazione multilaterale dell’esercito italiano è stato fondamentale è quello del Libano. Infatti, secondo l’ambasciatore Franco Mistretta, già a partire dalla guerra civile il contingente italiano della Forza di Interposizione in Libano delle Nazioni Unite (Unifil), si è distinto per la sua attività mirata alla costruzione e al sostegno della popolazione, nel delicato panorama multi confessionale libanese. “Il contingente comandato dal generale Franco Angioni – ha detto Mistretta - non aveva filo spinato e i militari avevano realizzato un ospedale nell’area a maggioranza sciita di Beirut, aperto a tutti”. Secondo il diplomatico è stato proprio questo approccio inclusivo ad aver evitato attacchi terroristi contro i militari e ambasciata italiana. Come ha notato Mistretta, dopo il ritiro l’ospedale è stato donato ai libanesi e resta un esempio di cooperazione a fianco alle operazioni militari. L’ex ambasciatore d’Italia in Libano ha invitato ad utilizzare questa strategia anche in altri scenari, come ad esempio quello libico, sottolineando tuttavia che nel caso specifico l’Italia non è in grado di assumere una tale iniziativa senza l’appoggio di altri paesi europei, che al momento restano contrari a qualsiasi tipo di intervento. Sempre con riferimento all'approccio in Libano è intervenuto Gabriele Checchia, già ambasciatore in Libano e attuale membro della rappresentanza permanente italiana presso le Organizzazioni internazionali a Parigi.

Per il diplomatico l’interazione fra università e forze di pace è stata una della peculiarità del Libano, dove, grazie all’impegno italiano, è nata una collaborazione fra centri accademici cristiani e quelli statali, frequentati soprattutto dalla componente musulmana sciita, comunità a grave rischio di radicalismo a causa dell'attività di proselitismo ideologico attuata dal partito Hezbollah. “In questo modo – ha dichiarato Checchia – abbiamo desiderato investire sulla possibilità di ridurre il margine per lo scontro e negli anni questo dialogo ha preso una sua dinamica ed è andato avanti”. Secondo l’ambasciatore “il futuro di tutti i paesi è legato allo sviluppo delle dinamiche territoriali” e la creazione di centri di formazione mirati a mitigare il clima di settarismo è utile per far nascere futuri politici e amministratori locali in grado di arginare i predicatori di odio. Tale modello può essere replicato e per il diplomatico il rapporto fra sicurezza, cultura e relazioni istituzionali è fondamentale per difendere le varie identità culturali presenti all’interno di aree colpite da guerre civili. Un esempio è la proposta avanzata dall’Italia all’Unesco sulla costituzione dei Caschi blu culturali, iniziativa nata in seguito alle devastazioni da parte dello Stato islamico contro monumenti e aree archeologiche in Iraq e ora anche in Siria, dove la città di Palmira rischia di essere distrutta. Come illustrato da Checchia, il compito dei Caschi blu sarebbe salvaguardare queste aree, al fine di sostenere la popolazione non solo da un punto di vista umanitario, ma anche sul piano dell’identità culturale.

Un altro caso affrontato nel corso della conferenza è stato quello delle missioni in Bosnia Erzegovina, dove la collaborazione fra università, diplomazia e forze armate attuata dalle iniziative del Ais ha dato alcuni importanti frutti in particolare per quanto riguarda la formazione delle élite locali. Per il consigliere politico della forza di difesa dell'Unione europea (Eufor) a Sarajevo, colonnello Thomas Widrich, è infatti proprio la cooperazione universitaria che supera le divisioni etniche, rendendo inoltre gli studenti i primi strumenti di aiuto alle forze di pace. Widrich sottolinea infatti che sono proprio le generazioni che frequentano le università a collaborare più attivamente agli obiettivi delle missioni di pace. L’ufficiale ha notato come tale approccio sia necessario anche in termini di formazione di forze armate in aree caratterizzate da divisioni profonde con il caso bosniaco: “Nell’Eufor abbiamo un mandato per costruire le forze locali e il ministero della Difesa della Bosnia è l’unico unitario per tutte e tre le componenti etniche, tuttavia la formazione degli ufficiali della componente serba avviene a Belgrado, quella dei croati a Zagabria e quella dei bosniaci è invece attuata da Ankara. Purtroppo la formazione è ancora etnico religiosa”.

Per il generale Carlo Vincenzo Coppola, già comandante della Missione dell’Unione Europea per l’addestramento delle forze polizia (Eupm) in Bosnia Erzegovina e attuale comandante interregionale dei carabinieri Pastrengo a Milano, le strategie di peacekeeping non possono più prescindere dal lavoro congiunto di esercito, polizia e diplomazia. “Il tema strategico della Bosnia – ha dichiarato l’ufficiale - era ricostruire un paese, ma da un punto di vista geografico è stato un fallimento”. Secondo Coppola il problema di quell'intervento è stato proprio il mancato intervento sull’istruzione e nelle scuole legate alle varie componenti del paese vi è ancora un approccio etnico che influenza i giovani. “Se non si interviene sulla scuola e sulle università non si ha la possibilità di costruire, nonostante la quantità di materiale e strumenti a disposizione”. Per il generale un altro problema delle organizzazioni internazionali è la visione di breve periodo nella gestione della crisi, approccio utile solo per le operazioni militari, ma non per la ricostruzione delle istituzioni e del sistema paese. Coppola ha notato che nei documenti riguardanti l’approccio comprensivo (comprensive approach) varati dalle varie organizzazioni, solo l’Unione Europea fa un timido riferimento al mondo delle università, concentrandosi maggiormente su altri aspetti. L’intervento spesso frammentario di varie realtà in un contesto di ricostruzione è spesso deleterio e secondo l’ufficiale vi è spesso un attrito fra le organizzazioni che rende difficili tali interventi, come ad accaduto ad esempio in Afghanistan dove gran parte delle organizzazioni internazionali presenti pretendeva di addestrare le forze di polizia, creando frammentazione e confusione. Per Coppola un eventuale futuro intervento in Libia senza tali caratteristiche rischia di non funzionare: “Non si può andare in Libia solo sei mesi per fermare i barconi, ma occorre restare per un periodo lungo, ricostruendo la cittadinanza e la sua elite. Questo è il compito del mondo accademico”. (Sic)

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