Periodico di informazione delle Forze Armate, Forze di Polizia e Pubblico Impiego

FONTE: LA STAMPA

 

spending reviewIl Commissario alla spending review se ne va e dice che ci voleva qualcuno in grado di fare entrare la cultura della revisione della spesa nella testa della burocrazia. "Mi rendo conto che non è semplice, afferma; sarebbe un passo avanti se i collaboratori più stretti dei ministri controllassero meglio i testi che vengono approvati. E poi in Italia si fanno troppe leggi. Ogni settimana si sente l’urgenza di scriverne qualcuna. Più ce ne sono, più è difficile applicarle, maggiore è il livello di discrezionalità".

«Sicuro stia ancora qui?» si chiede quello che non riesce a contattare l’interno. L’ormai ex commissario alla spending review non ha più una segretaria, né altri collaboratori. L’ala del suo ufficio è vuota come quelle di certe aziende andate rapidamente fallite. Lui invece è ancora lì, seduto nella scrivania di una stanza d’angolo. Quando il telefono della ex segretaria squilla, si alza e va a rispondere. Resterà fino al 31 ottobre, quando tornerà a Washington come direttore esecutivo per l’Italia al Fondo monetario internazionale.

 

Dottor Cottarelli, avrebbe dovuto rimanere tre anni, alla fine sarà solo uno. Perché?

«All’inizio con Letta l’accordo era per un anno, ma mi chiese di restare per tre. Poi le cose sono cambiate».

 

Renzi non l’ha mai amata, non voleva un burocrate a occuparsi di tagli.

«Se mi amasse o meno dovete chiederlo a lui. Però ha ragione quando dice che le decisioni le deve prendere la politica, non un commissario. Quando mi chiamarono anche io mi chiesi perché ci fosse bisogno di una figura del genere».

 

Cosa le risposero?

«Che ci voleva qualcuno in grado di fare entrare la cultura della revisione della spesa nella testa della burocrazia».

 

I risultati non sono entusiasmanti.

«Ora c’è la norma che porterà alla drastica riduzione delle centrali di acquisto pubbliche, quella che introduce l’obbligo di fatturazione elettronica, c’è una prima lista di prezzi benchmark. È in vigore un decreto che imporrà un tetto di cinque auto a ministero, è stata completata l’introduzione dei fabbisogni standard nei Comuni, c’è una banca dati delle partecipate pubbliche. Sono soltanto alcuni esempi di quel che è stato fatto».

 

I grandi problemi sono irrisolti. Penso alla riorganizzazione delle prefetture o il caso delle partecipate: lei aveva proposto di ridurle da ottomila a mille, nella legge di Stabilità non c’è nulla.

«Sulle partecipate le cose stanno come dice lei, non so cosa risponderle. Sulle prefetture si sarebbe potuto procedere più velocemente. Un primo strumento per attuare la riforma era compresa nella legge di svuotamento delle Province, poi scoprì che era necessario inserirla di nuovo nella delega di riforma della pubblica amministrazione».

 

Perché?

«A quanto pare c’erano problemi giuridici».

 

In Italia i capi di gabinetto hanno sempre l’ultima parola. Perché?

«Le norme sono spesso lunghe e incomprensibili e solo loro sono in grado di gestirle».

 

Cosa si può fare per cambiare le cose?

«Occorrerebbe cambiare la testa di chi scrive le leggi, mi rendo conto che non è semplice. Sarebbe un passo avanti se i collaboratori più stretti dei ministri controllassero meglio i testi che vengono approvati. E poi in Italia si fanno troppe leggi. Ogni settimana si sente l’urgenza di scriverne qualcuna. Più ce ne sono, più è difficile applicarle, maggiore è il livello di discrezionalità».

 

Abbassare l’età media dei dirigenti pubblici, come vuole Renzi, è una soluzione?

«Ho sessant’anni, non può farmi dire che è una soluzione. Però aiuta».

 

Era favorevole al tetto di 240mila euro?

«Sì, ma la cosa più importante è che è stato fermato il meccanismo che permetteva la rivalutazione Istat degli stipendi. Di fatto negli ultimi trent’anni ai dirigenti pubblici più elevati è stata garantita una scala mobile negata agli altri».

 

Come funzionario del Fmi ha visto da vicino molte burocrazie. Dica la verità: un Paese nel quale la fusione fra Aci e motorizzazione civile salta tre volte non lo ha mai visto.

«No. Aggiungo una cosa: mi sono reso conto che un problema importante della spesa italiana è la mancanza dei controlli. Le norme vengono scritte, spesso non vengono rispettate».

 

Una struttura c’è: è la Corte dei Conti.

«La quale si preoccupa di far rispettare le procedure, non l’efficienza dei processi. Le racconto un aneddoto: quando ho scoperto che i Comuni si affidano a società esterne specializzate nei controlli dei costi, ho chiesto perché la stessa cosa non venga fatta nei ministeri. Mi è stato risposto che farlo è rischioso, perché la Corte dei Conti si metterebbe a fare le pulci agli anni precedenti. Non so se è vero, ma se lo fosse sarebbe la dimostrazione che qualcosa non va».

 

La legge di Stabilità ha accantonato la spending review, si torna ai tagli lineari. È così?

«I target di riduzione di spesa esistono in tutto il mondo, il problema è come li si applica».

 

Se ne va pessimista sul futuro dell’Italia?

«Assolutamente no. In Italia le cose cambiano, è che i problemi sono tanti e non ce ne accorgiamo. Con l’eccezione delle pensioni, fra il 2009 e il 2012 la spesa pubblica dello Stato è scesa del 10 per cento, quella dei Comuni dell’8, quella delle Regioni del 16, solo la spesa sanitaria è rimasta costante. Altrove verrebbero giudicati come ottimi risultati».

 

Tornerà?

«Sono sicuro di sì».

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